Per una sociologia trasformativa e di posizione

di Fabio de Nardis e Anna Simone

Questi mesi di distopia pandemica sono stati un‘occasione di riflessione per molte studiose e studiosi che, nelle lunghe settimane di reclusione, hanno avuto modo di riprendere in mano i grandi classici del pensiero sociologico. Confrontandoci, ci siamo resi conto di come le scienze sociali siano state realmente efficaci solo quando sono rimaste agganciate ai processi storici, senza rincorrere fittizi steccati disciplinari o la chimera di un finto neutralismo scientifico.

Prof. Fabio de Nardis ===>>

I grandi sociologi del passato erano dotati di una forte soggettività storica, capaci di contaminare e farsi contaminare dalle condizioni materiali dell’esistenza sociale, generando anche una cassetta degli attrezzi utile a determinare i nuovi modelli politici, giuridici e sociali. Anche gli specialismi scientifici, originariamente pensati per ricostruire l’intero spazio dei mondi sociali, hanno poi finito per spezzettarlo dentro rigidi schemi accademici, polverizzando il tutto in tante piccole scatole nere sempre meno comunicanti tra loro. A partire da queste considerazioni, abbiamo sentito l’esigenza di rilanciare il ruolo pubblico, emancipatorio, politico, trasformativo della sociologia attraverso la costruzione di una rete di sociologhe e sociologi “di posizione”.

Condividiamo l’idea di una sociologia intesa come una scienza sociale al contempo “trasformativa” e “generativa”, in grado analizzare il presente per determinare un’agenda critica necessaria a immaginare un’alternativa di società. Da questo punto di vista, il compito della sociologia è fare emergere contraddizioni laddove tutti vedono normalità ed elementi di regolarità laddove tutti vedono contraddizioni. In questo senso essa è, per sua stessa natura, intimamente sovversiva, dunque posizionata. Se per tutto l’arco del Novecento la nozione di “classe” e di “sapere critico” costituivano coordinate imprescindibili per studiare e comprendere la composizione sociale nei suoi rapporti con il potere, la politica, il diritto e la cultura, oggi bisogna fare i conti con una “scomposizione” sociale e con una forma di “individualismo metodologico” che, anziché andare verso la rivalorizzazione di una genealogia storica e sociale dei nostri classici e del loro “stile” di pensiero, per ridare energia critico-propositiva ai saperi sociali, tende a diventare sempre più un’ancella al servizio dei decisori. Tale processo tende a favorire una sociologia fredda, neutra, rassicurante e di servizio e si innesta acriticamente in un processo più grande che, a sua volta, genera un divario ulteriore e preoccupante tra bisogni sociali reali e forme della decisione politico-istituzionale.

Per “sociologia di posizione”, noi intendiamo un triplice movimento: da un lato, vogliamo rilanciare quell’idea di sociologia pensata dai nostri classici, aggiornando la loro cassetta degli attrezzi per riposizionarci e riposizionare la sociologia in direzione di un pensiero trasformativo e generativo contro l’ordine linguistico dell’opinione e dei saperi al servizio del potere; dall’altro lato, vorremmo anche che la sociologia abbia una maggiore visibilità nel dibattito pubblico proprio grazie alla sua natura meramente critico-interpretativa, ma anche propositiva dei e sui contesti sociali, al fine di tornare a determinare i grandi mutamenti di scala, anziché esserne solo spettatrice passiva, se non addirittura già determinata da essi. Infine, riteniamo che il termine “posizione” sia in grado di tradurre sia i saperi sociologici che i saperi delle soggettività che compongono le società contemporanee fornendo finalmente una risposta all’interrogativo che si poneva Gayatri Spivack, femminista indiana immigrata negli Stati Uniti e studiosa di Gramsci, in un mondo fortemente determinato dal neoliberismo: «I subalterni possono parlare?». La risposta sarebbe affermativa se la sociologia tornasse a rivestire il suo ruolo di tramite, al contempo relazionale e conflittuale, tra l’interpretazione degli assetti economici, politici e giuridici e gli stessi mondi sociali situati e posizionati, sia sotto il profilo geografico, sia sotto quello delle soggettività.

Gli esseri umani hanno spesso difficoltà a trascendere i confini stretti delle proprie relazioni interindividuali. Vivono la propria vita nella convinzione che la causa dei propri disagi sia da rintracciare in se stessi o nel perimetro delle relazioni interpersonali, cedendo sempre più alla deriva individualista e concorrenziale determinata dall’antropologia neoliberista. Pur non negando l’importanza degli aspetti psico-sociali e micro-
sociologici, la nostra prospettiva inserisce le dinamiche della vita sociale dentro una dimensione macro, fatta di processi economici, politici e culturali in cui si configurano vecchi e nuovi rapporti di forza nonché le relazioni di potere che non possono mai essere scisse dalle fasi e dalle contingenze storiche. Diventa dunque centrale comprendere i mutamenti strutturali dentro cui gli esseri umani sono immersi. La capacità di leggere il riflesso dei processi storici sulla vita interiore degli individui e sul loro comportamento esteriore è tra l’altro uno dei presupposti di quella “immaginazione sociologica” ben delineata da Mills nel suo tentativo di definire i parametri di una nuova sociologia critica. Allo stesso modo, la sociologia di posizione si pone l’obiettivo di ricondurre il comportamento sociale e i disagi personali ai turbamenti oggettivi delle società contemporanee, trasformando dunque l’indifferenza pubblica in interesse attivo per i problemi collettivi al fine di restituire processi di soggettivazione possibili ad attori sociali utilizzati solo come mere individualità statistiche o merci di consumo. Il presupposto materialistico di questo approccio risiede nell’idea che ogni individuo possa realmente comprendere la propria esperienza solo collocandola nella propria epoca storica, concentrandosi sugli aspetti che lo accomunano agli altri anziché solo su quelli che lo distinguono da essi. Ogni biografia individuale è collocata in una particolare sequenza storica e solo connettendo individui e storia nell’ambito del complesso sistema di relazioni sociali possiamo gettare luce sul presente e sul futuro dell’umanità.

La domanda fondamentale a cui un sociologo o una sociologa di posizione deve rispondere è: che tipi di donne e uomini prevalgono in un determinato periodo storico, al netto della sua configurazione strutturale? E che tipo di relazioni mettono in campo? Che tipo di modelli sociali determinano? Quanto e come sono invece determinati da quegli stessi modelli sociali? L’abilità sta dunque nel passare da una dimensione micro a una dimensione macro, dunque politica, economica e culturale, per poi eventualmente tornare a quella micro su cui si collocano le singole soggettività umane, al fine di farle interloquire per interrompere quella lunga sequenza di scissioni tra il sé e gli altri, il sé e le società, le società e gli assetti politici, economici, giuridici e culturali. Questo presuppone un’analisi sistematica dei processi di mutamento e una certa capacità di muoversi agilmente su diversi livelli di astrazione per restituirgli forza materiale.

I fondamenti teorici del nostro tentativo di gettare le basi di una nuova sociologia trasformazionale sono da rintracciare nell’opera di Karl Marx depurata dalle incrostazioni ideologiche di quegli interpreti che, al fine di “completare” il suo pensiero, hanno in realtà finito per negarlo. Il nostro punto di partenza è dunque la prospettiva del materialismo storico secondo cui è possibile arrivare alla costruzione di una scienza unitaria della società sulla base di tre parametri fondamentali: 1) storicità delle categorie teoriche; 2) composizione materiale dei rapporti sociali; 3) possibilità di rintracciare le leggi causali della transizione storica da un tipo sociale a un altro e quindi anche da un modello culturale a un altro. Tuttavia, se Marx è un punto di partenza fondativo per comprendere il capitalismo e i rapporti di forza che strutturano le società moderne, riteniamo altrettanto importante utilizzare la cassetta degli attrezzi consegnataci anche da altri interpreti del Novecento come Foucault e i suoi studi sul potere; Bourdieu per le sue ricerche sempre “situate” e “posizionate” che hanno restituito parola e valore a tutti quei soggetti relegati ai margini delle società capitalistiche; Gramsci per comprendere i rapporti di forza egemonici e contro-egemonici; la Scuola di Francoforte per i loro studi sul capitalismo, il desiderio, il consumo e la “personalità autoritaria”; infine, ma non meno importante, il pensiero femminista e le sue numerose stratificazioni pratico-concettuali.

Concepiamo quindi la storia come un succedersi di discontinuità che portano alla successione di tipi sociali assorbiti nella materialità delle relazioni. La storia è dunque in sé promotrice di mutamento e le scienze storico-sociali hanno il compito di individuare le leggi che governano questo mutamento per criticarle o per trasformarle. Nessun “tipo sociale” può considerarsi eterno e immutabile. Al contrario, la sua provvisorietà diventa la premessa necessaria per ogni indagine sociale sul presente. Dentro questa logica, il presente è il punto di approdo della discontinuità storica che si è realizzata nel passato e il punto di partenza della discontinuità storica che si realizzerà nel futuro. Il cambiamento diventa dunque scientificamente necessario e si realizza attraverso la sostituzione di un tipo sociale (non ideale perché già materiale) con un altro. L’accento sulla dimensione della provvisorietà del presente e sulla necessità storica del mutamento coniuga dunque la dimensione della scienza con quella della politica e dei bisogni delle soggettività. La mediazione tra pensiero e realtà, tra logica e storia diventa così reale, concretizzandosi nella connessione logico-storica tra teoria e prassi.

Attraverso un approccio critico è dunque possibile connettere i processi culturali direttamente alla pratica dell’esistenza umana, fornendo di questa esistenza una spiegazione che parta dall’esistenza stessa. Come fece Marx per la sua epoca, oggi si tratta di ricostruire un’interpretazione della modernità a partire dal suo impianto materiale connesso alla capacità umana di produrre coscienza e organizzazione. Non si tratta di speculare sull’esistenza del mondo, né di spezzettarla in compartimenti stagni, ma di ricondurre la spiegazione del mutamento sociale alla connessione necessaria tra pensiero e azione. Non è un caso che la stessa critica marxiana investisse tutte le componenti intellettuali del diciannovesimo secolo disvelandone la causazione storica, in modo che la critica della teoria diventasse critica della pratica, la critica dell’economia politica diventasse critica del capitalismo e la critica della teoria politica diventasse critica della politica e del diritto borghesi. Lo stesso approccio posizionato è rintracciabile negli studi delle autrici e degli autori menzionati i quali, senza le basi fondative del pensiero marxiano, non avrebbero potuto pensare e studiare gli effetti sulla società e sugli attori sociali del capitalismo, del potere, dei consumi e dei conflitti che hanno reso il Novecento un secolo tanto intenso.

Dal punto di vista della sociologia trasformativa e di posizione, la politica va studiata come un insieme di idee e comportamenti che si strutturano nei rapporti materiali, identificando le connessioni che storicamente si realizzano tra istituti politico-giuridici e rapporti socioeconomici. Questa concezione ci allontana dall’idea formalistica e normativa secondo cui la politica e la democrazia siano solo un modo di produrre decisioni sradicate dalla realtà strutturale dei rapporti sociali. Definire la democrazia come un semplice corpus di regole, vuol dire sganciarla dalla dimensione sociale degli interessi, vincolando la volontà popolare a un meccanismo formalistico che si realizza nella scissione istituzionalizzata tra governanti e governati. Così facendo, si decapita la politica di significatività sociale. I mezzi formali di espressione della delega e della sovranità si trasformano in fini, impedendo che essi possano essere sostituiti da mezzi nuovi e sclerotizzando l’organizzazione democratica nella sua variante minima espressa storicamente dal liberalismo. Il popolo viene ridotto a entità sociale il cui unico compito è quello di adeguarsi alla volontà politica delle élites. Si tratta di scegliere se il focus vada posto sulla sovranità popolare o sui mezzi per esprimerla. Appare evidente che l’ipotesi formalistica dei mezzi-fini, per quanto sia proposta come neutrale, nella realtà sia molto “storica” nel senso gramsciano, dal momento che è l’espressione teorica e istituzionale di una società costruita attorno alla centralità individuale che si articola nell’asimmetria dei rapporti sociali tipica di un modello di organizzazione capitalista, dentro cui il potere è esercitato in modo elitistico.

Società di massa e società di élites sono due facce della stessa medaglia. Se le masse partecipassero alla politica non sarebbe necessaria un’élite illuminata né una massa conformista. L’apatia politica non è semplicemente una reazione cognitiva delle masse verso gli istituti della politica, ma è al contrario una “concezione” elaborata dalle élites neoliberali che si fonda sulla scissione tra sfera della politica e sfera dell’esistenza sociale. Dentro la concezione neoliberale, le masse possono essere attivate sporadicamente solo al fine di legittimare il potere delle élites. Per far questo, esse devono essere passivizzate durante l’esercizio di quel potere attraverso la manipolazione della loro struttura morale e politica che si realizza oggi soprattutto attraverso l’industria culturale e i vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, nonché attraverso le relazioni digitalizzate e un’idea sempre più “prestazionale” della vita, del lavoro e della comunicazione che genera, a sua volta, nuove forme di alienazione e scissione tra la dimensione percepita delle società e la dimensione reale nelle quali si dispiegano le vite materiali degli attori sociali.

A queste dinamiche occorre anche aggiungere la questione della “mortificazione” alla quale è condannata la grande stagione novecentesca dei conflitti politici e sociali. Quei diritti sanciti in nome della cittadinanza e del lavoro oggi sono diventati sempre meno esigibili, mentre aumenta esponenzialmente un processo di pauperizzazione delle vite e dello stesso lavoro che trasforma i “soggetti di diritto” in “bisognosi”, “marginali”, in parte come già accaduto nell’Inghilterra ottocentesca del primo capitalismo con le Poor Law, una sorta di filantropismo di carattere disciplinare, talvolta persino meritocratico, atto a eliminare ogni forma di conflitto sociale nella allora neonata società industriale.

La concezione liberale della società intesa come somma di individui dissociati e impegnati nelle attività produttive ha creato le condizioni per cui non si possa concepire altra forma di reggimento politico da quella che si attua per mezzo dei governi tecnocratici. “Individualismo” e “proprietà” diventano i due attributi indissociabili della “persona pre-sociale” che la legge avrebbe il compito primario di difendere. Ma in questa logica, anche la cosiddetta eguaglianza giuridica diventa una forma compiuta di disuguaglianza. La stessa idea di democrazia si riduce a insieme di forme, oggi tra l’altro duramente incrinate dalla politica emergenziale nel nome della quale possiamo identificare un processo di evidente involuzione delle condizioni democratiche, imbrigliate nei parametri di un neoliberismo autoritario, inteso come quell’insieme di strategie statali attraverso cui i parametri del sistema neoliberista sono tenuti al riparo da ogni possibile pressione popolare.

Tuttavia, se il liberismo nella sua concezione classica mirava a ridurre le funzioni dello Stato all’interno delle economie di mercato, ma concedeva spazi politici di manovra alla politica e alla rappresentanza, tenendo in piedi un apparato giuridico minimo in grado di contenere le stesse derive del mercato, nel neoliberismo si registra un ulteriore processo di intensificazione della presenza del mercato nella sfera pubblica e sociale. Il diritto privato mira ad avere la meglio sul diritto pubblico considerato come un ostacolo alla piena realizzazione del principio di libera concorrenza. Il valore e l’estrazione del valore avviene non più solo attraverso la forza lavoro, ma attraverso l’intera esistenza umana e sociale (desideri, gusti, preferenze, identità della popolazione) mercificata e sussunta pienamente dal capitalismo. Il vecchio controllo sociale si è totalmente ricodificato e ramificato attraverso il potere degli algoritmi a loro volta strumentalizzati dalla comunicazione politica, le piattaforme e gli standard di valutazione e produttività su base aziendalistica. Le vecchie forme di organizzazione del lavoro hanno ceduto il passo al Management che trasforma l’umano stesso in “risorsa”, mentre la politica cede sempre più alla sua dimensione Io-cratica e neo autoritaria.

Il neoliberismo prende forma e si rinforza, in primo luogo, attraverso pratiche statali coercitive finalizzate a disciplinare, marginalizzare e sovente criminalizzare le forze sociali di opposizione; in secondo luogo, attraverso gli apparati giuridico-amministrativi degli Stati che limitano i percorsi lungo i quali le politiche neoliberali possono essere messe in discussione e sfidate. Nel connettere crisi democratica, depoliticizzazione e neoliberismo autoritario, assumiamo dunque che quest’ultimo operi attraverso meccanismi di disciplinamento preventivi che isolano e proteggono le politiche pubbliche neoliberali attraverso strumenti giuridici, amministrativi e coercitivi finalizzati a mettere al riparo il decisore politico da ogni forma di dissenso sociale. Da questo punto di vista, appare evidente come il neoliberismo si discosti anche dal pensiero liberale classico. Le politiche neoliberali hanno infatti bisogno di uno Stato forte, ma di una democrazia debole.

È dentro questi presupposti teorici che rivendichiamo l’esigenza della costituzione di una rete di scienziate e scienziati sociali che, non rinunciando al rigore metodologico, si pongano oggi il problema della critica dello stato di cose presente, senza per questo scadere in uno sterile ideologismo che attiene a un sapere dottrinario, uno stile che non ci riguarda. L’emergenza pandemica sta tragicamente mostrando gli effetti perversi dei processi di mercatizzazione dello Stato e delle politiche pubbliche. I sistemi sanitari mostrano le loro fragilità per effetto dei processi di privatizzazione a cui sono stati sottoposti. Le ricchezze vengono delocalizzate e concentrate tramite il capitalismo delle piattaforme. L’emergenza ha rafforzato i processi di personalizzazione e centralizzazione del potere prestando il fianco alla proliferazione di modelli di riferimento neo-autoritari. Questi processi si innestano in dinamiche di crescita delle disuguaglianze e criminalizzazione delle povertà che rischiano di trovare un’ulteriore accelerazione nei prossimi anni.

La pandemia ha aggravato disuguaglianze e divari sociali. È per questo che non basterà essere “resilienti”. Se esserlo significa tornare a un modello di sviluppo centrato sull’accelerazione dei cicli di produzione e consumo, sul primato del capitalismo finanziario, su un fisco regressivo, su insopportabili asimmetrie di potere, sull’individualismo competitivo e sulla normalizzazione della disperazione, noi preferiamo rifiutare la logica della resilienza, abbracciando piuttosto una pratica di resistenza generativa, trasformativa e posizionata.

L’Europa che verrà merita equità politica, sociale e fiscale, dignità del reddito, tutela del lavoro, un benessere fondato su beni e servizi collettivi, di qualità, accessibili a tutti. Sanità, istruzione, servizi di cura, acqua ed energie, infrastrutture sociali, abitazioni, investimenti in cultura e ricerca sono quei bisogni radicali e necessari per rendere la vita degna di essere vissuta.

Dedicheremo gli anni che verranno a un duplice impegno. Da un lato, ci daremo il compito, proprio della sociologia posizionale, di analizzare le conseguenze sociali e politiche della pandemia a partire dal cosiddetto Recovery Plan. Dall’altro, useremo gli strumenti della ricerca sociale per disegnare un’altra vita per l’Italia e l’Europa, a cominciare da una nuova idea di cura collettiva, non affidata agli attori della grande finanza, ma restituita ai suoi stessi beneficiari. L’innovazione di cui abbiamo bisogno non è quella predefinita dalle élites tecnocratiche, ma un cambiamento reale fondato sui desideri, i bisogni e gli interessi collettivi degli attori sociali.

Fabio de Nardis
Università di Foggia

Anna Simone
Università di Roma 3


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