Passaggi d’epoca. Dall’intellettuale antisistema all’amministratore culturale.

di Patrizio Paolinelli

Gli intellettuali non sono una specie in via di estinzione. Scrittori e docenti universitari pubblicano regolarmente sulle pagine e gli inserti culturali dei quotidiani. Economisti, filosofi, sociologi sono spesso interpellati dai media e gli atenei non stanno affatto chiudendo i battenti.

Il libro è senz’altro in crisi, ma sono arrivati gli e-book, si continuano a sfornare best-seller e i dibattiti alle fiere del libro sono seguiti con interesse. Su Internet è tutto un fiorire di blog e riviste telematiche. I premi letterari stabiliscono ancora le loro classifiche, mentre mietono successi di pubblico i festival culturali: della filosofia, della complessità, della letteratura e così via. Certo, se per intellettuale intendiamo il portatore di un dissenso politico antisistema, allora sì, quella categoria è oggi poco visibile. E il motivo è semplice: è finita l’epoca delle rivoluzioni antiborghesi. Con molti chiaroscuri le ultime propaggini di quell’epoca furono il ’68 in Francia e il ’77 in Italia. Dopodiché è partita la rivoluzione conservatrice capitanata da Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Bush (padre e figlio). Rivoluzione che ha contaminato la sinistra moderata – basti ricordare Tony Blair – e che continua ancora oggi.

Nonostante il trionfo del neoliberismo gli intellettuali che si fanno carico dei problemi del mondo non mancano. Non sono corteggiati dai media ma risultano vivi e vegeti. Si pensi a Samir Amin e a Noam Chomsky, giusto per citare un marxista e un anarchico noti a livello internazionale. Si pensi a quel laboratorio di idee che è il Forum Sociale Mondiale, nato nel 2001 a Porto Alegre in risposta al Forum Economico Mondiale di Davos. Si pensi alla galassia di autori che pubblicano per case editrici militanti e che fanno sentire la loro voce nei circuiti legati ai movimenti per la globalizzazione alternativa. Rispetto al passato la critica degli intellettuali impegnati soffre di due criticità: si rivolge più all’opinione pubblica che a specifiche classi sociali (trovandosi così in una posizione di debolezza dinanzi alla potenza di fuoco dei media mainstream); agisce in un contesto storico in cui la politica non gode più del primato sociale che le era proprio nel ‘900. Risultato: le idee dei movimenti faticano a intaccare i valori dominanti centrati sull’individualismo e il consumismo. Basti citare per tutte la decrescita felice di Serge Latouche.

Un nuovo intellettuale è oggi egemone: l’amministratore culturale. Chi è costui? E un funzionario della rivoluzione conservatrice. Funzionario che si è dimostrato strategico nel far piazza pulita di soggetti collettivi forti quali i partiti, nel ridimensionamento dei sindacati, nel mettere in discussione la scuola di massa, nella demolizione del Welfare State, nella negazione del diritto al lavoro. L’amministratore culturale è un militante che fa politica con strumenti non tradizionali. Lo troviamo all’opera alla LUISS e alla Bocconi, nelle redazioni dei quotidiani e nelle produzioni cine-televisive, negli uffici e nei centri studi della Confindustria, nelle agenzie pubblicitarie e nell’armata di addetti alle pubbliche relazioni. Lo troviamo persino tra gli esperti di marketing. I quali non si limitano solo a trovare il modo migliore per allocare prodotti/servizi e stimolare la domanda. Si interrogano anche sulla coesione sociale, la coscienza collettiva, la struttura delle emozioni, il senso di appartenenza degli individui, i loro bisogni, la loro ricerca di identità. Nella quasi totalità questi professionisti hanno sostenuto il passaggio dal fordismo al post-fordismo e sostengono oggi il fondamentalismo del mercato. Ovvero, la mercificazione di ogni cosa. E anche grazie al lavoro quotidiano e ormai trentennale degli amministratori culturali che il mondo è cambiato. Si deve soprattutto a loro se l’ideologia del tramonto delle ideologie è diventata senso comune, se nell’Italia di oggi il termine comunista si è trasformato in un insulto e se qualificare come azienda l’unità sanitaria locale rientra nel linguaggio corrente. Si deve a loro se l’intellettuale inteso come coscienza critica della società è relegato nell’ombra, se una popstar particolarmente esuberante è considerata ribelle, se Steve Jobs passa addirittura per un rivoluzionario e se le crisi economiche sono presentate come eventi naturali. E in questa temperie culturale dominata dal pensiero unico che un imprenditore come Diego Della Valle ha potuto recentemente avanzare la proposta di un governo nazionale composto quasi esclusivamente da tecnici. Proposta ritenuta fantascientifica anche solo una decina di anni fa, in pieno berlusconismo. Ma che oggi rientra nel novero delle cose senza sollevare particolari reazioni, neppure dalla comunità politica.

La marginalizzazione di pensatori alla Wright Mills è il risultato delle ristrutturazioni post-fordiste e dell’azione quotidiana esercitata dagli amministratori culturali. Grazie a questo combinato disposto oggi viviamo in una società frammentata in cui gli individui non si riconoscono in un progetto collettivo, fanno parte di specifici target di consumatori e di pubblico, inseguono ideali personali e si sono più o meno ritirati nel privato. Da qui il successo di fenomeni diversissimi tra loro come la Tv commerciale e la New Age. Mancando sia la visione di un progetto comune che un soggetto sociale portatore di tale visione (come potevano essere un tempo i movimenti operaio, studentesco, delle donne) la terra è franata sotto i piedi della critica al neoliberismo. Il grande pubblico è quasi del tutto spoliticizzato, è poco interessato alle idee di eguaglianza e giustizia sociale, ha sempre meno coscienza dei diritti sociali e le rivoluzioni che abbraccia sono tecnologiche o di costume. Esattamente quelle che risultano funzionali al potere economico. A pilotarle ci sono gli amministratori culturali per dare l’illusione di vivere in libertà e tra le cui competenze c’è quella di far passare le politiche neoliberiste in modi surrettizi. Ad esempio, tramite formule oscure come le riforme strutturali.

Con la parcellizzazione del pubblico in tipologie di consumatori il pensiero critico si è trovato a fare i conti con la moltiplicazione degli opinion leader. Che sono, in primis, i giornalisti, seguono in ordine sparso cantautori, soubrette, popstar, attori, campioni sportivi, imprenditori, comici, pornodivi. Non solo: gli amministratori culturali agiscono in sintonia con i ritmi dell’industria culturale, spiazzando così il pensiero riflessivo. I tempi della radio e della televisione impediscono infatti lo sviluppo del ragionamento. Nei talk-show si va per accuse, sentenze, botta e risposta. Mentre nelle interviste si procede per frasi brevi e conclusive. Non c’è alternativa: il pubblico ha imparato ad annoiarsi nel giro di pochi secondi e cambia canale. Questo processo di prolificazione, compressione e accelerazione della parola mortifica la maturazione del concetto e tuttavia non impedisce la partecipazione degli intellettuali alla vita dei mass-media. Sia perché acquistano notorietà, sia perché è l’unico modo per accedere a una platea altrimenti irraggiungibile.

L’adattamento alla società mediatizzata ha condotto a un abbassamento qualitativo generalizzato di produzioni culturali un tempo guardate con rispetto e soggezione. E’ il caso del libro: ormai non c’è personaggio dello spettacolo che non scriva, spesso con grande successo di vendite. Al di là dei giudizi sulla qualità, dopo aver perso la possibilità di interessare il grande pubblico l’intellettuale alternativo vede stornata la capacità di spesa dei lettori a favore di opere di intrattenimento. E a questo punto si pone una domanda: J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, è un intellettuale? Lasciamo aperto il quesito. Certo, la Rowling non rappresenta la coscienza critica della società. Ma d’altra parte un Majakovskij o un Pasolini sarebbero oggi rapidamente inghiottiti dal vortice mediatico. C’è tuttavia un punto da cui forse si può partire per cercare una risposta: ieri si guardava con speranza al futuro, mentre oggi esiste solo il presente. Ecco perché da circa un ventennio la filosofia si è concentrata più sul linguaggio che sulle idee. Ecco perché l’opinione di un giornalista ha una presa assai maggiore di quella di un sociologo. Ciò non toglie che su questioni particolari non esistano intellettuali impegnati che hanno conquistato l’attenzione del grande pubblico. È il caso di Roberto Saviano sul tema della legalità. Non si sogna più di cambiare il mondo, ma almeno un suo spicchio.

Dott. Patrizio Paolinelli


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