Il crepuscolo della gioventù

di Patrizio Paolinelli

aggregazione giovanile

Per molti giovani dare del vecchio a qualcuno significa insultarlo, irriderlo, snobbarlo. Una tale attribuzione di senso ribalta il ruolo sociale della vecchiaia così com’era inteso nelle società tradizionali e per gran parte della modernità. Se oggi gli anziani hanno perso il prestigio d’un tempo si potrebbe supporre che siamo dinanzi a un giudizio largamente condiviso nella nostra società. Il che è vero solo in parte perché a un’indagine a malapena approfondita, ci si accorge che più che dinanzi a un ethos storicamente costruito, sedimentato generazione dopo generazione, siamo dinanzi a un’efficace tecnologia del potere economico. Che nella sua versione capitalistica si caratterizza per distruggere ciò che crea, età della vita comprese. Ma procediamo con ordine.

Innanzitutto sarebbe fuorviante pensare che i giovani costituiscano un fronte compatto. Per un adolescente un venticinquenne è già vecchio e per un venticinquenne un quarantenne è un matusa. Eppure ognuno di loro si considera giovane. Dunque le fila dei giovani sono divise, come peraltro gli spazi pubblici che frequentano: i locali dei diciottenni, ad esempio le discoteche, sono di fatto preclusi ai trentenni. Ciononostante c’è qualcosa che tiene uniti i giovani in quanto idea. Questo qualcosa è la cultura. Ma la cultura è un’astrazione se non la si collega alle sue pratiche. Perciò la prima domanda da porsi è: quale tipo di cultura tiene insieme il frammentato fronte dei giovani che però è unanime nel prendere le distanze dai vecchi? E la risposta è una sola: la cultura di massa. I cui prodotti determinano comportamenti apparentemente eterogenei. Ad esempio, tra un surfista e un punk, tra un dark e un rapper ci sono notevoli differenze. Ciò che li unifica è il fatto di essere subculture inglobate nella cultura di massa; la quale, a sua volta, è prima di tutto un’attività economica gestita in termini capitalistici.

Qui incontriamo un altro nodo critico, perché a determinare la cultura di massa non sono i giovani, ma l’industria culturale (cinema, radio, Tv, fotografia, stampa, editoria, moda, sport, pubblicità, videogiochi, musica pop, nuovi media ecc.). Su questo aspetto occorre essere chiari: dal secolo scorso ad oggi sono gli adulti a decidere ciò che per i ragazzi è bene e ciò che è male, ciò che devono vedere, ascoltare, leggere, desiderare e persino pensare. D’altra parte, proprietari e manager delle industrie culturali sono in genere individui in là negli anni. I quali utilizzano a man bassa i giovani – come protagonisti e come promotori – per allargare il mercato dei loro coetanei. Per capirci, è difficile che lo stilista abbia la stessa età della modella e lo stesso meccanismo vale per i guru della pubblicità, per i proprietari di discoteche e palestre. Tanto è così che i teenager (13-19 anni) nascono negli anni Cinquanta del secolo scorso quando gli imprenditori si accorgono della loro capacità di spesa. Prima di allora i teenager non esistevano, semplicemente perché avevano pochissimi soldi in tasca. Non basta. Dagli anni Cinquanta a oggi i consumi culturali dei giovani sono prevalentemente pagati dagli adulti, sotto forma di genitori, nonni e parenti vari che dispensano ai propri ragazzi paghette sempre più crescenti e si accollano le spese per i loro bisogni, consumi, desideri peraltro sempre più differenziati e sempre più costosi: abbigliamento, scuola, attività sportive, divertimenti, prodotti tecnologici, mezzi di trasporto, corsi di ogni tipo, vacanze e così via. Detto in parole povere, gli imprenditori usano i giovani per far aprire il portafogli agli anziani.

La dinamica descritta suggerisce che più che la dialettica sociale è la ricerca del profitto a creare il mito dei giovani. Perché di mito si tratta. Dal punto di vista dell’età anagrafica i giovani esistevano anche al tempo degli antichi romani ma non erano considerati una categoria sociale a parte. In breve, le differenti età della vita e la sensibilità collettiva che ne deriva sono prodotti storico-culturali e non naturali, anche se tali possono apparire. In proposito è arcinota la tesi di Philippe Ariès, secondo il quale l’idea e il sentimento dell’infanzia appaiono solo tra il XVII e il XVIII secolo e costituiscono pertanto invenzioni della modernità̀ (per secoli in Europa l’abbandono dei neonati era una pratica diffusa che non comportava una condanna sociale e non suscitava sensi di colpa da parte di chi la metteva in atto). Col che siamo arrivati a una domanda cruciale: i giovani di oggi possono essere ancora considerati giovani? Ovviamente sì sul piano anagrafico, ma diversi segnali indicano il declino di un’età della vita largamente costruita dal mercato.

I killer dell’idea di gioventù sono parecchi. Il principale è forse il giovanilismo. Termine con cui si ritiene che la giovinezza sia un modo d’essere svincolato dal corso del tempo. Così come i teenager sono un’invenzione del mercato anche il giovanilismo è il risultato della caccia al profitto. Le aziende dello spettacolo, delle emozioni, della cura del corpo e più in generale del tempo libero si sono accorte che potevano estendere ai non giovani il mercato dei propri prodotti/servizi inizialmente destinati ai giovani. E così oggi gli interventi di chirurgia estetica sono praticati dalle adolescenti e dalle cinquantenni, i nonni indossano i jeans, le mamme fanno a gara con le figlie per apparire seducenti, i padri con i figli per apparire in buona forma fisica ed entrambi i genitori si regalano un bel tatuaggio perché nessuno possa dire che non sono alla moda.

Col giovanilismo sia il narcisismo primario (quello dei bambini) sia la maniacale erotizzazione della vita quotidiana diventano fenomeni di massa e trasversali alle età della vita: se gli adulti fanno di tutto per restare giovani e attraenti, a differenziare i giovani resta sempre più l’anagrafe. D’altra parte i costumi invecchiano e con essi anche i giovani che li adottano. Short, topless e minigonne entrano in scena nei lontani anni ’60 del secolo scorso. Allora ruppero con la società patriarcale in nome della liberazione del corpo mentre oggi fanno parte della normalità. Una normalità che contribuisce a rendere precocemente anziani i giovani perché: 1) si trovano senza un soggetto da contestare in quanto gli adulti si propongono e si atteggiano in maniera non molto dissimile dalla loro; 2) perché la perdita della spinta contestatrice li rende conformisti e dunque integrati nella società (la quale non subisce alcun scossone per le intemperanze di qualche rockstar, gli eccessi della movida, le vacanze trasgressive).

A contribuire al crepuscolo della gioventù è la crisi della stessa industria culturale che della gioventù ha fatto un mito e un gigantesco mercato. Da tempo la musica pop è incapace di esprimere vere novità. Ormai è tutto un revival, ristampe, remake e ruminazioni a cui fanno da contraltare divetti e divette di plastica costruiti a tavolino dagli adulti nei piani alti dell’industria discografica. La mediocrità la fa da padrona anche al cinema dove è tutto un sequel, prequel e rimasticature varie. Per quanto riguarda i libri, i giovani sono stati istruiti a stargli alla larga perché in passato hanno formato rivoluzionari in grado di far tremare il capitalismo, cosa che non accade, né con tutta probabilità accadrà, con i social network, i tablet e i telefoni cellulari.

E tuttavia i giovani restano biologicamente giovani, ossia tendenzialmente pieni di energia e di entusiasmo. Energia ed entusiasmo che vanno canalizzati in qualche sogno. La cosiddetta rivoluzione tecnologica è servita allo scopo. La Silicon Valley, con i suoi giovani imprenditori diventati miliardari dalla sera alla mattina, è un mito portante dei Millennial. Peccato che non rivoluzioni nulla, peggiori le disuguaglianze sociali e per di più sia un bluff. La Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi mesi se non fosse sostenuta da massicci investimenti statali decisi da attempati politici. Tanto per dirne una, la Apple è, di fatto, un’azienda parastatale mentre la quasi totalità della tecnologia dell’i-Phone è stata realizzata in larga misura con denari pubblici. E Steve Jobs? Un gran venditore e nulla più. Ma tutto questo i Millennial non lo sanno e la stampa va avanti con la propaganda del mito mentre il potere resta gerontocratico nell’Hi-tech come altrove.

A rendere i giovani adulti anzitempo ci sono poi le terribili condizioni materiali in cui si trovano da un paio di generazioni: disoccupazione di massa, precariato dilagante, degrado della scuola pubblica, progressiva demolizione del welfare-state, alto costo della vita, basse retribuzioni e così via. Dinanzi a una situazione del genere come mai i giovani non si sono comportati da giovani facendo la rivoluzione? Perché non sono più giovani. D’altra parte non hanno una coscienza politica, né tantomeno di classe, e sono molto meno istruiti dei giovani degli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso. Al di là delle opinioni, mediamente uno studente universitario dei nostri giorni non è in grado di fare un’analisi sensata della condizione sociale e politica della città, della regione, del Paese in cui vive. Insomma, i giovani sono stati abbondantemente americanizzati. Le università ormai sfornano ragazzi incapaci di immaginare un mondo diverso da quello in cui vivono. Per esempio, parlare con un bocconiano è un’esperienza avvilente: ti trovi davanti a un anziano di vent’anni tanto è normalizzato e ossequioso nei confronti della vecchissima ideologia liberale (assai più vecchia del marxismo, se vogliamo metterla sul piano temporale). Naturalmente, il bocconiano pensa di essere giovane perché la sua aspirazione è far quattrini, perché padroneggia l’inglese, parla in aziendalese e dice “mandami un feedback” anziché “rispondimi”.

Ma come hanno fatto anziani politici al servizio di anziani imprenditori a far accettare il barbarico modello sociale statunitense ai giovani italiani e più in generale ai giovani europei? In mille modi ovviamente. Innanzitutto smontando anno dopo anno i diritti sociali conquistati dai padri (il posto fisso? Che noia! La sanità pubblica? Privatizziamola!) e poi, ad esempio, inventando la “generazione Erasmus”. Come è noto l’Erasmus è un programma di mobilità per studenti universitari che possono compiere in un’università straniera un periodo di studio. Trattasi in larga misura di giovani privilegiati destinati a svolgere professioni altamente qualificate e ben retribuite. E casomai a qualcuno non andasse bene sul piano occupazionale durante gli scambi Erasmus è assai probabile che se la sia spassata in piccanti avventure sessuali. Questa minoranza di ricchi o futuri ricchi cosmopoliti sono utilizzati dai mezzi di comunicazione di massa per mostrare alla maggioranza dei giovani senza futuro quanto è bello emigrare, trovarsi senza lavoro per parecchie volte nella propria vita, smarrire la propria identità culturale e vivere in una condizione di perenne incertezza.

Le età della vita sono soggette ai processi storici. Non è solo la gioventù a entrare in una fase di declino. Anche l’infanzia si sta avviando al crepuscolo. Basti vedere i bambini trasformati in adulti in miniatura dalla pubblicità, il loro generalizzato addestramento al consumismo, l’indottrinamento alla religione del look, la loro precoce erotizzazione (col consenso dei genitori, a loro volta figli della Tv commerciale). I giovani d’altra parte sono sempre più squattrinati (tranne i privilegiati) ed ecco che a sostituirli arrivano i bambini per far aumentare i consumi delle famiglie (fino al 30% annotano soddisfatti gli esperti di marketing). Per assolvere a questo compito i piccoli vanno drogati di pubblicità, televisione, videogiochi, frivole mode e quant’altro.

Il capitalismo ha necessità di riorganizzare il ciclo della vita e lo sta facendo con la ferocia che lo contraddistingue. Dunque ha vinto e i giovani sono tutti irretiti? Sarebbe sbagliato e ingiusto pensarla così. Quella che abbiamo esaminato è una tendenza che i media presentano come dominante. Lo sarebbe meno se la stampa non fosse asservita al potere economico. Ma così non è. E tuttavia esistono giovani che sono rimasti tali. E sono quelli che si impegnano per il prossimo, per l’ambiente, la pace, la giustizia sociale e che operano nel volontariato, nelle Ong, nel mondo dell’associazionismo, della cooperazione e speriamo prima o poi anche in qualche partito politico, com’era un tempo, quando i giovani non erano anziani.

Prof. Patrizio Paolinelli,
Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro

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