LE REGOLE NEL GIOCO… E NEL DIRITTO

Marco LilliIl filosofo e sociologo italiano Renato Treves (1907-1992), definisce la sociologia del diritto – di cui è stato fondatore in Italia contribuendo anche alla sua affermazione in ambito internazionale –come «una branca della sociologia, sia pure storicamente costituitasi in un contesto culturale (e accademico) marcato da una lunga e solida tradizione di studi giuridici e filosofico-giuridici» (cfr. Maggioni, 2008, p. 10); e che in buona sostanza «la sociologia del diritto guarda il diritto “dall’esterno”» (cfr. Treves, in Ferrari, 2010, p. 150).Su queste premesse, possiamo affermare che la sociologia del diritto da un lato studia l’influenza del diritto sulla società, e dunque sul comportamento degli individui, dall’altro, al contrario, l’influenza che la società – e dunque sulla sua formazione – ha sul diritto. Pertanto possiamo ancora dire che la sociologia del diritto ha come oggetto tutto ciò che riguarda la produzione, attuazione e osservanza delle norme giuridiche, mentre il concetto di teoria generale del diritto va ricondotto alla definizione di alcune figure o espressioni giuridiche, come per esempio: diritto, norma, ordinamento giuridico e operatori giuridici, cioè (questi ultimi) chi ha a che fare direttamente con il diritto (magistrati, avvocati, inquirenti, consulenti).Per il giurista e sociologo tedesco Gunther Teubner, il diritto è «come un sistema sociale i cui elementi di base “sono comunicazioni, non norme”» (cfr. Teubner, in Ferrari, 2010, p. 33), perciò il diritto, «come insieme strutturato di norme, è un fenomeno comunicativo particolarmente complesso, in cui i numerosi attori intervengono ricoprendo diversi ruoli, ognuno agendo secondo prospettive determinate dai propri progetti d’azione» (cfr. Ferrari, 2010, p. 45).

Ebbene, se da un lato pare evidente «che i detentori del potere politico», giacché dispongono «dello strumento legislativo, possano maggiormente influire sul diritto», altrettanto lo è il fatto, almeno nelle democrazie, che: «esercita un potere anche chi li sceglie col voto o ne influenza le decisioni» (ibidem, p. 48). Un esempio emblematico sono le lobbies. È stato Max Weber (1864-1920), quale giurista di formazione, a distinguere con particolare attenzione «i compiti del giurista puro, cui spetta dire “quale senso normativo si debba attribuire, in modo logicamente corretto, a una formazione linguistica che si presenta come norma giuridica”, da quelli del sociologo del diritto, cui spetta comprendere e spiegare “che cosa accada di fatto nell’ambito di una comunità, data l’esistenza della possibilità che individui partecipanti all’agire di una comunità […] considerino soggettivamente e trattino praticamente determinati ordinamenti come validi, e quindi orientino in vista di essi il proprio agire”» (cfr. Weber, in Ferrari, 2010, p. 151).

Sulla base della locuzione latina ubi societas ibi ius, ma anche ubi ius ibi societas (dove c’è una società, lì c’è il diritto, e viceversa), rilevante per la sociologia del diritto è l’influenza che il diritto esercita sull’opinione pubblica e dell’influenza esercitata da quest’ultima sul diritto, ovverosia come l’uno (diritto) e l’altra (opinione pubblica) si influenzino reciprocamente. Da qui i concetti di cultura giuridica interna (cioè le opinioni di chi esercita attività giuridica) e cultura giuridica esterna (vale a dire le opinioni di tutte quelle persone estranee all’attività giuridica, ma su cui ricadono gli effetti).Esempi in tal senso sono ultimamente riconducibili a fenomeni molto sentiti dall’opinione pubblica che chiede al legislatore interventi mirati e di sostanza, si pensi al cosiddetto femminicidio o l’omicidio stradale.Infatti, se da un lato l’opinione pubblica, dunque chi non esercita attività giuridica, pare molto attratta da un’ipotesi di una legiferazione specifica per le due fattispecie anzidette, così come lo sono molte componenti politiche che traggono vantaggio in termini di consenso elettorale da tale ipotesi, di tutt’altro indirizzo è l’opinione di chi esercita direttamente attività giuridica, ma anche dei più attenti dei sociologi del diritto poiché, almeno la gran parte di loro, sanno bene che una legiferazione in tal senso è solo strumentale, a nulla porta sotto un profilo di punizione sostanziale o di deterrenza.

Mi spiego. L’uccisione volontaria di un essere umano, sia esso donna o uomo, è già punita dal nostro ordinamento con l’ergastolo (tralascio in questa sede ipotesi di riti processuali alternativi con sconti di pena), cui si può giungere a determinalo attraverso il riconoscimento e applicazione delle cosiddette aggravanti comuni, cioè quei comportamenti che aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, come l’aver agito per futili o abietti motivi.Sono abietti quei motivi che ispirano la condotta dell’agente rivelandone la spregevolezza e il livello di perversione e malvagità del medesimo; sono invece futili quei motivi manifestamente sproporzionati rispetto all’azione delittuosa commessa.Due brevi esempi possono essere i seguenti: si è alla presenza dell’aggravante per aver agito per motivi abietti nel caso in cui una persona è uccisa dopo aver subito violenza sessuale o altre malvagità; si è alla presenza dell’aggravante per aver agito per motivi futili nel caso in cui una persona è uccisa per gelosia.

A proposito invece di omicidio stradale, in caso di uccisione di una persona, per esempio perché investita da un veicolo dove alla guida occupa posto un soggetto sotto l’influenza di alcool o sostanze stupefacenti, già, alla luce dell’attuale ordinamento, potrebbe essere punito non per colpa, bensì per volontà applicando la forma del cosiddetto dolo eventuale, perciò con una pena assai più severa rispetto a quella prevista dall’aver agito per negligenza, imprudenza o imperizia; e, oserei affermare, anche più rispetto a quella prevista in taluni disegni di legge in tema appunto di omicidio stradale.Il dolo è la principale forma tipica della volontà e diverse sono le sue forme. Per esempio, due di queste sono: 1) il dolo diretto o intenzionale quando l’evento conseguito risponde a quello voluto e configuratosi dall’agente; 2) il dolo indiretto, quando il risultato della condotta non è stato intenzionalmente o direttamente voluto dall’agente. In questa seconda ipotesi, cioè di dolo indiretto, esso può assumere la forma di dolo eventuale, e si manifesta quando appunto l’agente prevede come possibile il verificarsi di un evento che egli non vuole realizzare, ma pone in atto ugualmente la condotta accettando il rischio che il fatto dannoso accada.

Semmai, sempre dal mio modesto punto di vista, tuttavia supportato dal pensiero di autorevoli giuristi (puri), si potrebbe, con qualche aggiustamento alla norma esistente, specificare i casi in cui il dolo eventuale va applicato direttamente.La guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti, oppure l’attraversamento di un crocevia con semaforo rosso potrebbero essere casi d’esempio poiché pare pacifico che chi si mette alla guida di un veicolo in tali condizioni di alterazione psicofisica, oppure sfida la sorte, ecco che accetta il rischio di realistiche conseguenze negative.Ebbene, premesso che ogni epoca porta con sé una determinata teoria del diritto, ecco che la stessa è inevitabilmente contestualizzata, appunto, in quella determinata epoca, luogo, contesto storico, sociale e culturale.Da ciò deriva un’evoluzione della teoria del diritto che per certi aspetti assume una forma paragonabile al gioco, certamente non com’è inteso nell’immaginario collettivo, nel suo significato classico, cioè ludico, bensì come senso dinamico del termine, vale a dire gioco come movimento di qualcosa (rappresentato dal diritto) in relazione con qualcuno (gli attori sociali), che si muovono all’interno di un determinato perimetro (la società).

Studiare dunque i fenomeni giuridici con approccio sociologico significa individuare e comprendere le micro e macro fratture che inevitabilmente si producono nella società moderna, e che la mera analisi del diritto non riuscirebbe a ricomporre; da questo ne deriva l’esigenza divulgativa di una cultura del diritto da proporre in ogni ambito sociale, al fine di educare la società verso un processo di comprensione del diritto attraverso una chiave sociologica, ossia capire come l’assenza o l’applicazione delle norme hanno impatto sulla società.Ciò premesso, si provi a immaginare il gioco e la sua dinamicità applicato al diritto materiale, palpabile, cioè all’interpretazione processuale della norma e quindi ai suoi risvolti positivi o meno in termini di efficacia. La nozione di gioco non essendo estranea neppure all’etica contemporanea molto influenzata dall’utilitarismo, non lo è, quindi, allo stesso modo, per il diritto, e il parallelo fra le regole del gioco e quelle del diritto è stato proposto nel tempo da vari autori.Auguste Comte (1798-1857), per esempio, «mette in luce il ruolo essenziale delle regole costitutive che instaurano il gioco come il diritto nella loro specificità e nella loro autonomia» (cfr. Kerchove-Ost, 1998, p. 16).

Per Max Weber «il parallelismo del gioco e del diritto si impone egregiamente nella sola cornice del processo. Il processo, come ogni gioco, lo si perde o lo si vince; come ogni gioco la sua esistenza deriva da regole che ne definiscono concettualmente i confini. Tuttavia […] si avrebbe torto ad inferire da ciò l’assimilazione tra regola del diritto e regola del gioco. Dal momento che si esce dal cerchio chiuso del processo per cercar di comprendere una situazione sociale complessa» (ibidem, p. 19). Tuttavia, «alcuni non esitano a prendere in considerazione altro che la dimensione strategica o strumentale del gioco, immaginando il soggetto di diritto come soggetto calcolatore che agisce con lo scopo esclusivo di massimizzare i propri interessi o, ancora, riducendo il processo ad una dimensione di ponderazione di interessi concorrenti o di un bilancio che metta a confronto costi e profitti della situazione controversa» (ibidem, p. 100). Il processo, attraverso la decisione finale di un giudice, è stato sempre visto come il momento finale dell’applicazione del diritto, dove da una parte c’è chi accusa e dall’altra chi tenta di discolparsi, in mezzo chi giudica, ossia colui posto al centro con funzioni di terzietà tra i soggetti in causa, dove, appunto, attraverso il gioco delle parti (movimento, argomentazioni e linguaggio, più che mai giuridico), si tenta di persuadere quel soggetto (giuridico) che sta nel mezzo, cercando di indirizzarlo verso l’una o l’altra tesi di parte.

Quindi mediare, trovare la giusta posizione tra le ragioni delle parti contrapposte, mantenere l’equilibrio (tipico del giudice cosiddetto terzo), ovvero essere nel mezzo, collocarsi e mantenersi nello spazio intermedio, cioè a dire il ruolo del giudice che si pone come equidistante per creare uno spazio dove le parti in causa possano sentirsi tranquille e sicure.Tale spazio intermedio – entre-deux – indica quel luogo dove le ragioni dell’uno passano attraverso quelle dell’altro e viceversa, attraversando la parte intermedia (il giudice) dove ragionevolmente ne filtra le argomentazioni, le mosse, gli assunti, lo stesso linguaggio – proprio come un direttore di gara fa in un regolare gioco – al fine di delinearne le regole e i risultati finali.Come negli altri ambiti sociali, anche nel processo l’elemento che costituisce il mezzo dove si opera la comprensione attiva è quello linguistico, nel senso che il dialogo prende vita solo quando si instaura una reale interazione, nello specifico potremmo definirlo il contraddittorio fra le parti. Per fare ciò è necessario spogliare le parole e le frasi dalla rabbia e dal rancore di cui sono a volte cariche, per proporle ripulite e meglio accettabili, caratterizzando, così, lo spazio intermedio come un campo dove la comunicazione e la dialettica abbia il proprio movimento bi-direzionale in senso adeguato al contesto; non a caso esistono altrettante norme che regolano l’andamento, ovvero lo svolgersi corretto del processo.

In tale prospettiva, compito dell’entre-deux (processuale) è quello di dare risposta adeguata al diritto, ossia alla giuridicità della norma laddove è prevista una sanzione; non a caso i sostenitori della teoria normativistica del diritto hanno sempre sottolineato l’importanza delle sanzioni e soprattutto l’efficacia della sanzione medesima. Tuttavia non è azzardato ritenere che il vero deterrente affinché si rispetti la legge non sia tanto, e comunque non solo, la sanzione ordinaria prevista per quella specifica violazione, bensì la cosiddetta sanzione accessoria. Per dirla in breve: il vero deterrente è la sanzione accessoria.Come nel gioco, che oltre all’espulsione dal campo del calciatore (sanzione ordinaria) può seguire la squalifica per un certo numero di giornate (sanzione accessoria), anche nel diritto, si pensi alla guida in stato di ebbrezza, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria (ordinaria), può esserci la sospensione del documento di abilitazione alla guida (sanzione accessoria) per un certo periodo.Ancora una volta gioco e diritto si intersecano rispetto alle regole in campo, ovvero poste a garanzia delle parti in competizione: «La distinzione tradizionale tra processo penale e processo civile appare ovviamente emblematica. Ponendo in gioco gli interessi morali della società più direttamente e più apertamente di quanto non faccia il processo civile, il processo penale è per sua natura più spettacolare» (ibidem, p. 104).

Mai come in questi ultimi anni tale affermazione è reale, grazie soprattutto alla discutibile risonanza massmediatica che viene data a taluni fatti di cronaca, non tanto, a mio avviso, per sensibilizzare la società su certi eventi, quanto per dare sfoggio – non si comprende bene perché – a risibili soggetti fatti passare per unici esperti in quel determinato campo.E dunque ecco che, viceversa, nel processo civile lo spettatore e altri attori non hanno la possibilità di identificarsi, per esempio (negativamente) con l’incriminato, oppure (positivamente) con l’esperto presunto cui si da possibilità di esibirsi attraverso e sui media. Tutto questo nel processo civile non esiste, giacché non c’è appunto un incriminato, non c’è una colpa, non c’è un’etica tradita, èrgo non c’è spettacolarizzazione.Termino affermando che nell’immaginario collettivo c’è l’errata convinzione che il diritto altro non è che il risultato della produzione normativa da parte dello Stato, ignorando invece che: «gran parte del diritto trae immediatamente origine dalla società in quanto esso è ordinamento interno dei rapporti sociali, del matrimonio, della famiglia, delle corporazioni, del processo, dei contratti, della successione, e non è mai stato ridotto a norme giuridiche. Queste invece vengono alla luce nelle sentenze dei magistrati e nella giurisprudenza intesa come diritto dei giudici e dei giuristi» (cfr. Febbrajo, p. 78).

Dott. Marco LILLI

Sociologo-Criminologo

Bibliografia

Febbrajo A. (2010) (a cura di) Verso un concetto sociologico del diritto, Milano, Giuffrè.

Ferrai V. (2010) Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza.

Kerchove M. e Ost F. (1998) Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, Giuffrè.

Maggioni G. (2008) Percorsi di sociologia del diritto, Napoli, Liguori.


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