Le disavventure della Scuola di Francoforte

di Patrizio Paolinelli

prof. Patrizio Paolinelli

L’accademia non ha mai amato la Scuola di Francoforte. L’ha subita molto malvolentieri durante gli anni ’70 del secolo scorso quando i libri di Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm si vendevano come il pane e gli studenti universitari erano in rivolta. Se ne è sbarazzata con gran sollievo non appena ha iniziato a soffiare il vento della grande normalizzazione avviata negli anni ‘80 dal neoliberismo.

Poi sono arrivati gli anni ’90, dopo siamo entrati nel nuovo millennio e più passava il tempo, più i francofortesi venivano dimenticati, bollati come superati e le loro tesi considerate inutilizzabili per decifrare la nuova società post Muro di Berlino. Una società formata culturalmente all’insegna della filosofia post-moderna, della sociologia della complessità e di nuove scuole di pensiero in una maniera o in un’altra allineate con i valori delle società avanzate. Gli stessi che la Scuola di Francoforte aveva aspramente criticato tanto da prospettarne il superamento.

Come è noto è avvenuto l’esatto contrario e il neoliberismo ha trionfato. Tuttavia, almeno formalmente la Scuola di Francoforte non è scomparsa. Infatti, alla prima generazione ne sono succedute altre tre. A presentarle è il libro di Giorgio Fazio intitolato, “Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica” (Castelvecchi, Roma, 2020, 410 pagg., 34,00 euro). In questo ponderoso volume Fazio illustra i percorsi intellettuali di coloro che hanno raccolto il testimone della prima generazione di francofortesi: Jürgen Habermas, Axel Honneth, Nancy Fraser, Wolfgang Streeck, Rahel Jaggi e Hartmut Rosa.

Dopo aver letto l’ampio commento di Fazio si ha la netta sensazione che dell’eredità della prima generazione di francofortesi sia rimasto ben poco, per non dire nulla. A dilapidarla ha iniziato Habermas con la sua svolta politicamente socialdemocratica e teoricamente compatibile col sistema sociale dominante. A ruota hanno proseguito le generazioni successive. Chi più chi meno ovviamente. Il dato di fatto è che oggi la teoria critica non gioca quasi alcun ruolo nel dibattito pubblico e ancor meno nella società. A stroncarla è stata sicuramente l’offensiva culturale neoliberista. Che, tanto per dirne una, ha normalizzato l’università e messo all’angolo ogni forma di dissenso nei confronti delle idee dominanti e delle teorie che le sostengono. Ma il colpo di grazia lo hanno inferto le successive generazioni di francofortesi.

Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm parlavano alla società, alla politica, ai giovani. La loro critica demoliva lo stato di cose presenti e di fatto chiamava alla rivolta contro il totalitarismo democratico. Tant’è che nella prassi la loro critica si saldò con un poderoso movimento di contestazione di quella che allora veniva chiamata la società borghese. Le successive generazioni di francofortesi parlano prevalentemente al mondo universitario, discutono tra accademici, confutano le tesi dei colleghi, rivedono le proprie e così via. Il più delle volte con un linguaggio comprensibile a pochi e segnando anche nello stile una presa di distanza dalla prima generazione.

Va riconosciuto che il ’68 è passato e così pure gli anni ’70. Momenti storici che favorirono la costruzione e il successo della teoria critica. Ma dalla rassegna di Fazio emerge, pagina dopo pagina, l’abbattimento delle idee più forti della prima teoria critica e la contemporanea integrazione della successiva con proposte filosofiche che certo non turbano i sonni delle classi dominanti. Chiusi nelle loro torri d’avorio Habermas e successori discettano sulla modernità, la razionalità, la tecnica, l’etica, la morale e si dilungano su questioni epistemologiche mettendo a punto una nuova teoria critica che non rifiuta la società così com’è, né tantomeno intendono ipotizzarne un’altra. L’utopia non li riguarda.

Al netto delle incertezze e dei ripensamenti di alcuni esponenti della prima teoria critica, la stella polare che li guidava era comunque l’emancipazione degli individui e della società dal sistema di produzione e di riproduzione capitalistico. Rinunciando a questa emancipazione si rinuncia alla teoria critica.  Honnet, dopo una vita di studi, torna a Hegel. Un bel passo indietro. La stessa Jaeggi, pur affrontando un tema tipicamente francofortese come l’alienazione si perde poi in un relativismo psicologico che di fatto giustifica l’ordine sociale esistente. Hartmut Rosa costruisce un edificio teorico di sconcertante fragilità (si pensi che secondo questo autore il principio fondamentale della modernità è l’accelerazione sociale). Wolfgang Streeck si distingue forse come l’esponente più di sinistra, ma non esce dalla ragnatela del dibattito accademico. Un dibattito talmente lungo e senza possibilità di uscita che diventa fine a sé stesso e soprattutto non offre chiavi di lettura per rovesciare i rapporti di dominio. Dagli autori presentati da Fazio emerge soprattutto una cultura libresca, autoreferenziale, che anziché ritornare a Francoforte se ne allontana pubblicazione dopo pubblicazione.

Uno spettro si aggira tra le pagine della nuova teoria critica: lo spettro di Marx. Da Habermas in poi i francofortesi cercano in tutte le maniere escludere l’impatto che il filosofo di Treviri ha avuto sulla formazione della prima teoria critica. I cui fondatori erano neomarxisti, in rotta col dogmatismo sovietico e considerati tra i padri della Nuova Sinistra. Le successive generazioni di francofortesi sono soprattutto in rotta col marxismo e attingono a filosofi e pensatori che non mettono in discussione la società capitalistica. Da qui la debolezza delle loro riflessioni.

 Ritorno a Francoforte” è un testo didattico il cui autore converge col moderato realismo della nuova teoria critica e così scrive: “Nei percorsi di riflessione più avvertiti che animano la teoria critica contemporanea, in effetti non si tratta mai di riproporre sic et simpliciter la lezione di Adorno, Horkheimer e Marcuse, saltando a piè pari le critiche formulate da Habermas e da Honneth nei confronti delle premesse filosofiche dei loro approcci, delle posture funzionaliste delle loro teorie sociali, dei tratti di autoritarismo epistemologico ed etico scovabili nelle diagnosi epocali di una “società totalmente amministrata” o di un mondo a “una dimensione”.

Il brano riportato rappresenta una pietra tombale sulla teoria critica della prima generazione di francofortesi. Non basta occupare istituti e cattedre che gli appartenevano per dirsi loro continuatori. Non è una questione di fedeltà o di ortodossia. È una questione politica e culturale. Marcuse, Adorno, Horkheimer erano dei filosofi radicali: tutt’altro si può dire di chi ha preso il loro posto all’università. Fazio non solo non dà conto del progressivo svuotamento della teoria critica, ma lo sostiene. In tal senso il suo libro può essere letto come un esempio della normalizzazione della filosofia e della sociologia nel mondo universitario.

Che fare dunque per ritornare a Francoforte? Evitare gli epigoni o presunti tali e tornare a leggere direttamente Adorno, Marcuse, Fromm, Pollock e così via. Si scoprirà quanto i concetti che elaborarono sono ancora oggi utili e necessari.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, settembre 2021


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