VIOLENZA OSTETRICA: QUANDO LA MATERNITÀ DIVENTA SOLO UN PROBLEMA DELLE DONNE

di Sonia Angelisi

Dott.ssa Sonia Angelisi – sociologa e counselor sociolistico

PREMESSA

La maternità è stata fino ad oggi molto poco indagata dal punto di vista sociologico. Considerare l’esperienza della maternità come un fatto sociale significa considerarlo, secondo la metodologia durkheimiana, come un fatto esterno all’individuo, coercitivo e causa di un altro fatto sociale. La maternità, quindi, non più concepita né come un mero vissuto interiore (seppur stereotipizzato) né come un fatto totalmente neutro nell’ottica medico-scientifica che tende a oggettivizzare il corpo della gestante e a sfuggire al condizionamento storico-sociale. Come sociologi consideriamo la maternità un fatto sociale esterno influenzato da fattori storici e politici, senza i quali non sarebbe sociologicamente inquadrabile. La sociologia, quindi, va ad inquadrare l’esperienza della maternità in un contesto socio-culturale e simbolico.

Riprendendo anche il concetto di campo di Bourdieu, la maternità si configura in una rete di relazioni oggettive tra posizioni differenti. Per dirla in parole semplici, esiste un cosmo sociale fatto da tanti microcosmi sociali relativamente autonomi che costituiscono degli spazi di relazioni soggettive (i campi, per l’appunto) Ogni campo ha logiche e necessità specifiche diverse dagli altri campi. Ogni posizione assunta dai diversi soggetti nel campo, mira sia a conservare sia a trasformare la struttura di relazioni del campo stesso. Nello studio della maternità, il campo ha la funzione principale di permettere di costruire scientificamente gli oggetti sociali.

Nel campo della maternità assistiamo a diverse fasi: dal processo di medicalizzazione del corpo e del parto alla violenza ostetrica, dalla depressione post-partum alla conciliazione lavoro e maternità. Sullo sfondo, assistiamo alla nascita di una nuova maternità, quella surrogata.

La medicalizzazione del corpo e del parto è riconducibile essenzialmente a una sorta di colonizzazione da parte della cultura patriarcale dell’immaginario medico-scientifico. Alle donne non si concede la possibilità di vivere liberamente l’esperienza del parto e della gravidanza perché continuamente sottoposte a controllo e dominio in un sistema che espropria la donna della sua capacità di sentire.

La violenza ostetrica è il paradigma attraverso cui leggere tutta la violenza agita nei confronti delle donne. Essa è una violenza che legittima le pratiche di inferiorizzazione e sopraffazione della donna, una logica figlia del patriarcato che ragionava, appunto, in termini di sesso dominante e sesso subordinato.

La depressione post partum non è solo il frutto di uno squilibrio ormonale, ma ha radici profonde nel sistema medico e nei ruoli di genere. La fase del post partum è una fase delicata in cui le donne vengono spesso lasciate sole ad affrontare le difficoltà connesse alla gestione di un neonato. UN lavoro di cura molto impegnativo, estenuante dopo un parto de-umanizzato, un lavoro di cura che assorbe molto sia sotto il profilo emotivo e sia sotto il profilo pratico-fisico. Il supporto della comunità e della famiglia è fondamentale. Come aiutare le donne? Innanzitutto, agendo sia nel campo delle POLITICHE SANITARIE attraverso la promozione di un parto de-medicalizzato, sia nel campo delle POLITICHE DI GENERE dando, ad esempio, impulso alla genitorialità condivisa (concedendo il congedo di paternità), alla creazione di nidi sui posti di lavoro, incentivando lo smart-working per entrambi i genitori, rafforzando le reti di sostegno familiari e professionali.

Per quanto concerne la conciliazione lavoro maternità, nel nostro Paese che si definisce avanzato e sviluppato, abbiamo assistito nel corso degli anni ad uno smantellamento del Welfare senza che si sia provveduto contemporaneamente a soluzioni alternative. Il risultato è stato quello di basare sul lavoro di cura delle donne tutta la assistenza rivolta a bambini ed anziani. A fronte della mancanza di servizi pubblici, le donne si ritrovano a dover scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o rinunciare al proprio lavoro, una scelta che non dovrebbe neanche porsi e che, spesso, capita sia rivolta direttamente con meccanismi ricattatori dai datori di lavoro alle donne lavoratrici (pratiche illegali di dimissioni in bianco, richiesta brutale di test di gravidanza nei periodi di rinnovo dei contratti). Il risultato di questa regressione sul piano dei diritti sociali  è ancora una volta una divisione sessuale del lavoro senza un’equa distribuzione delle responsabilità familiari (la donna a casa appiattita nel suo ruolo esclusivo di madre, l’uomo fuori a lavorare) e una maternità che rallenta, barcolla, stenta a partire pur in presenza di un desiderio di maternità. Ci si ritrova a sostenere rette di asili privati, a dover fare i conti con mense scolastiche che partono in notevole ritardo e orari scolastici ridotti. Un sistema chiaramente sessista che non opera più le evidenti discriminazioni del patriarcato classico, ma attua le subdole e ambigue maniere del neo patriarcato moderno e liberale.

L’ideologia maternal-naturalista tende, ad esempio, a relegare nuovamente le donne nella sfera privata/domestica (allattamenti lunghissimi, rinuncia a lavori fuori casa). La madre italiana, in tutto questo, è la madre equilibrista: una caregiver instancabile che, contemporaneamente, cerca di offrire le migliori performance lavorative. Un suicidio, insomma, un equilibrio costantemente precario tra lavoro, famiglia e cura di anziani. Proprio in Italia, in cui il culto della maternità è potentissimo, il Welfare è decisamente scadente e si tende a dare contentini (bonus bebè, bonus primo figlio), senza agire strutturalmente sulle politiche sociali (congedi remunerati, assegni di cura, servizi all’infanzia, congedi lunghi anche per i padri). Precariet , insicurezza, latitanza dello Stato, mancanza di reti solidali sono i freni all’esperienza della maternità. Non stupisce che l’Italia sia tra i Paesi più vecchi d’Europa e registri un notevole declino demografico.

LA MEDICALIZZAZIONE DEL PARTO

La tendenza a medicalizzare il parto si avvia dall’oggettivazione dei corpi. Cosa significa? Ridurre il corpo ad un oggetto privato della sua dimensione soggettiva. La società post-moderna esalta solo l’immediata materialità fisica, riducendo la possibilità di conoscersi e riconoscersi in un mix di processi biologici complessi, relazioni con l’ambiente e rapporti con altri esseri umani. Gli effetti di questa tendenza sono: INDIVIDUALIZZAZIONE, CLASSIFICAZIONE E CONTROLLO. La maternità è completamente immersa nei processi culturali e nelle relazioni sociali, pertanto tranciare dal corpo questi collegamenti, influisce pesantemente sull’esperienza della maternità, la quale non può ridursi solo a un problema medico, ma richiede l’inclusione di variabili sociali, culturali e politiche.

Per medicalizzazione intendiamo lo sconfinamento della scienza e della medicina nella dimensione sociale. Medicalizzare significa creare consenso intorno all’oggettivazione dei corpi. Un’altra definizione indica la medicalizzazione come: degenerazione della fisiologia in patologia e il ricorso a trattamenti tecnologicamente avanzati, una farmacologizzazione aggressiva ed un eccesso di intervento medico. Nella medicina classica, l’oggetto principale era la narrazione: si prestava attenzione al racconto di coloro che necessitavano di aiuto e il medico provava ad immedesimarsi nel paziente per addentrarsi nel disordine del suo stato d’animo. Il compito del medico (fino al 1700) era interpretare il racconto doloroso del paziente. La nuova medicina ha, invece, costruito una forma di sapere gerarchizzata e stabilito un controllo sui corpi. Assistiamo a una rottura radicale col passato in cui il medico diventa uno specialista e le biografie individuali delle identità personali dei pazienti non contano più. È imperante l’omogeneizzazione e il riduzionismo biologico. Per questo oggi si parla tanto di medicina narrativa per rieducare il personale sanitario all’ascolto.

La malattia non può essere vista solo in termini biomedici, ma sono necessari saperi antropologici, sociologici e filosofici per poterne cogliere meglio le cause. È tutto il sistema sanitario che richiede una ristrutturazione. Non a caso gli ospedali che un tempo erano luoghi di cura e di carità per bisognosi ed emarginati, oggi sono fabbriche di prestazione di servizi che devono rispondere a requisiti di produttività ed efficienza (catene di montaggio che devono eliminare tempi morti con la lean production rischiando di dimenticare la funzione precipua dell’ospedale quale luogo di guarigione. La medicina è business e il processo dia medicalizzazione è una delle sue facce. Nell’ambito della maternità, l’ecografia ostetrica ad esempio, strumento diagnostico utilissimo, è divenuta una pratica abusata (eco in 3D, in 4D, scansioni in tempo reale, immagini ricordo in DVD). La medicina si configura come puro business e come tecnica che muta gli elementi fisiologici in minaccia. La gravidanza, ad esempio, è sempre più vista non come un evento naturale, ma come evento che minaccia la salute di donna e bambino. L’emergenza associata alla sicurezza del parto ha trasformato interventi raccomandabili solo in particolari circostanze di necessità, in misure di routine.

La letteratura ci dice che il parto oggi viene concepito come un evento pieno di pericoli da cui solo la ginecologia può proteggerci. Le madri si sentono, dunque, dipendenti totalmente dalla medicina (continui prelievi di sangue, amniocentesi, diete, esercizi fisici) e opporsi a questa dipendenza medica in gravidanza porta a forti sensi di colpa. Da sottolineare la totale responsabilità individuale; in passato la responsabilità dei mali e delle disgrazie veniva perlopiù attribuita a organizzazioni, istituzioni e sistemi complessi (l’ipertrofia del sociale aveva inghiottito la responsabilità individuale): la colpa era della società, del sistema, ecc… Oggi, invece con l’emergere dell’ideologia liberista e dell’iniziativa privata, la responsabilità personale dei singoli ha un forte peso. Una individualizzazione spinta che acuisce lo stato ansioso del singolo dietro le retoriche della prevenzione: non fai gli esami? Ti assumi tu tutte le conseguenze e le colpe che ne derivano. È una forma di controllo dei corpi delle donne nel caso della gravidanza.

La medicina post industriale è iperspecializzata e tecnicamente avanzata, ma anche fortemente de-personalizzata che tende a ridurre il corpo, il paziente ad organo e, quindi, a distanziarlo.

Sebbene la gestazione sia considerata solitamente un periodo di beatitudine che si interrompe con quella che Freud chiama “lacerazione ordinaria”, cioè il trauma della nascita da cui deriva la nascita del trauma ovvero la separazione tra madre e bambino, l’eccessiva medicalizzazione del parto, rende questa lacerazione ancora più dolorosa. Quando, ad esempio, questa separazione avviene col cesareo le donne la percepiscono in maniera più violenta.  In Italia 1 donna su 3 subisce il taglio ed è una pratica sempre più diffusa nella cultura umana. Dagli anni  ’40 ci fu un’ascesa del taglio cesareo e non diventa più frequente perché si ampliano le indicazioni patologiche all’intervento, ma si tende a sostituire la via naturale al parto. Basti pensare che l’OMS ha appurato che a un tasso più alto del 10% di tagli cesarei, non corrisponde una inferiore mortalità neonatale.  È stato anche appurato nel 2015 che l’ascesa globale dei parti cesarei non è guidata da necessità mediche, ma dalla crescita della ricchezza dei Paesi in cui viene applicato e dagli incentivi predisposti per i medici (The Economist, 2015)

Il taglio cesareo storicamente ha origini lontane: ne abbiamo testimonianze già dal ‘600 quando si introdusse il forcipe ostetrico e il parto cominciò a diventare strumentale e tecnologicamente assistito; l’ostetrico sostituì l’ostetrica…fu proprio re Luigi XIV nel 1663 che fece intervenire per la prima volta un uomo, un chirurgo, per un parto fisiologico, medicalizzando l’evento naturale e estromettendo la figura femminile dell’ostetrica dall’evento. L’egemonia maschile che si instaura con prepotenza sulla gestante e sulle figure femminili accudenti. Ma c’è anche un altro motivo che incentiva il parto cesareo. Il parto naturale richiede un’assistenza one to one, dunque la presenza di un’ostetrica per ogni partoriente; questo significa un aumento del personale e delle turnazioni. Il cesareo e l’epidurale abbattono questi costi di gestione e per ogni taglio cesareo si percepiscono delle speciali indennità in quanto intervento chirurgico.

Anche l’episiotomia, ovvero l’incisione atta ad aumentare lo spazio dell’anello vulvare dovrebbe essere discussa con la partoriente. Le donne possono chiedere che non sia praticata, anche se molte non lo sanno, a meno che la vita di donna e bambino non sia in serio pericolo….eppure ad oggi è l’intervento ginecologico più praticato nel mondo. In Italia 3 partorienti su 10 dichiarano di non aver fornito il consenso informato per autorizzare tale intervento. L’episiotomia, invece, dovrebbe essere un atto chirurgico di emergenza, da effettuarsi cioè nei casi in cui è assolutamente indispensabile.  Così l’episiotomia si trasforma in un tributo gratuito alla sofferenza e al dolore, una violazione del rispetto della natura umana. Quando si attua un intervento chirurgico, infatti, bisogna rispettare non solo principi medici ma anche etici.

Taglio cesareo e episiotomia sono die esempi molto eclatanti di come si tenda ad oggettivizzare il corpo della donna (considerare il corpo femminile come un oggetto violandone l’integrità attraverso interventi non necessari), a medicalizzare eccessivamente il parto e a far vivere alla partoriente un ruolo passivo nella nascita del proprio bambino.

Indubbiamente la medicalizzazione del parto ha portato a una diminuzione netta dei tassi di mortalità sia di bambino e sia della madre, ma l’ospedalizzazione della nascita ha portato anche  a uno straniamento della madre dal suo contesto intimo. Ciò che un tempo era monitorato dal sentire materno, oggi è oggettivato.

Fino al 1700 l’esperienza della gravidanza era contraddistinta da incertezza riguardo a inizio, durata ed esito. Il bambino finchè non nasceva era una speranza, mai una certezza. Col tempo si è diventati maniaci del controllo del futuro e si tende a misurare la gravidanza guardando alla donna come contenitore dello sviluppo fetale. Non solo, bisogna contestualizzare gravidanza e parto nelle diverse culture. Ad esempio, in alcune tribù il dolore del parto viene socializzato, cioè condiviso con altre figure della comunità. Questo accadeva anche da noi fino a qualche anno fa (circa 50 anni fa): il parto era un evento sociale che coinvolgeva non solo la donna, ma anche il marito, l’ostetrica, i parenti. La società si stringeva intorno alla partoriente e al suo bisogno di aiuto. Anche riguardo alla posizione del parto questa è cambiata nel tempo: in passato la donna era libera di assumere la posizione che voleva.

Nella seconda metà del ‘500 subentra la figura del barbiere-chirurgo che  in virtù dello strumentario che possedeva, tornava utile nel caso ci fossero difficoltà ad estrarre il bambino dal canale del parto. Da quel momento in poi, la donna fu costretta alla posizione supina a gambe divaricate per favorire l’intervento medico. Il parto cominciò a diventare strumentale  e medico, soppiantando la tradizione dell’ostetrica che fu mandata nelle scuole per ostetriche gestite dai medici. Questa è la riduzione del parto ad evento biologico e la trasformazione della del corpo della donna in contenitore.

Bisognerebbe deospedalizzare la gravidanza e raccogliere le positività precedenti per coniugarle alle conoscenze di oggi. Perché? Perché all’ospedalizzazione del parto corrisponde l’oggettivazione del corpo femminile e la svalutazione del sentire e del sapere materno. Con l’invasione della tecno-medicina, la soggettività dell’esperienza interna della donna diventa irrilevante ai fini medico-scientifici. La percezione integrata, olistica della persona, si perde nella concezione meccanicistica del corpo. La visione meccanicistica concepisce il corpo umano come una macchina fatta di pezzi che funzionano e lì dove non funzionano, si interviene sul singolo pezzo dimenticando che è parte di un ingranaggio non solo fisico, ma anche mentale, emozionale, sociale.

In questo contesto di medicalizzazione, si distingue la figura dell’ostetrica che da sempre ha agito empaticamente al parto, assumendo come dato principale che la nascita di un bambino non dovrebbe essere considerata alla stregua un mero intervento medico, ma un evento al quale due donne agiscono insieme, un’assistenza al parto permeata di fiducia. Tant’è che fino al 1800 alle partorienti era concesso di scegliere la propria levatrice di fiducia. Questo passaggio diretto tra donne ha urtato l’ideologia patriarcale al punto di far subentrare una figura maschile nell’assistenza al parto. Oggi la competitività tra gli specialisti, in ostetricia e in ginecologia, ha progressivamente eroso anche l’autonomia dell’ostetricia che oggi ha scarsa autonomia ed è sempre più sostituita dall’infermiera. Eppure il valore dell’ostetrica è immenso perché p in grado di gestire tutte le problematiche relative alla gravidanza, non solo mediche, quindi, ma anche umane, psicologiche, emotive, familiari, territoriali, tutto ciò che l’ospedalizzazione della maternità nega alle partorienti.

LA VIOLENZA OSTETRICA

Nel 1972 viene promossa a Ferrara da alcuni collettivi femministi, la campagna “BASTA TACERE” a cui aderirono diverse donne, raccontando storie di abusi e maltrattamenti subiti durante il parto e la gravidanza. Quei racconti furono raccolti in un opuscolo poi stampato.

Nel 2016 la stessa campagna di sensibilizzazione è stata rilanciata dai media con il sostegno di decine di associazioni femminili. “basta tacere: le madri hanno voce” è stato lo slogan lanciato sui social network per offrire alle madri la possibilità di raccontarsi. Come? Scrivendo la loro esperienza su un foglio anonimo senza rifermenti a persone e luoghi precisi, e facendo un autoscatto con il foglio davanti al viso e postando la foto su fb con l’hashtag #bastatacere.  È stato l’ennesimo invito a far emergere il fenomeno della violenza ostetrica. IN 15 giorni la campagna #bastatacere ha raccolto oltre 1300 testimonianze e ha coinvolto oltre 700.000 utenti al giorno.

Grazie a questa campagna è nato sempre nel 2016 in Italia l’OSSRVATORIO SULLA VIOLENZA OSTETRICA, un ente multidisciplinare gestito da un comitato etico di madri che ha lo scopo di monitorare l’incidenza delle pratiche agite contro le donne durante il percorso della maternità. Attualmente in Italia non esiste un monitoraggio ufficiale.

Nel 2017 è stata pubblicata la prima ricerca nazionale condotta su un campione rappresentativo di 5 milioni di donne italiane di età compresa tra i 20 e i 60 anni, denominata: “LE DONNE E IL PARTO” che ha permesso di stimare l’entità del fenomeno della violenza ostetrica.  Son stati analizzati i vissuti delle madri durante le fasi del travaglio e del parto, i rapporti con gli operatori sanitari, i trattamenti praticati, la comunicazione usata dallo staff medico, il coinvolgimento della partoriente nelle decisioni relative al parto. I risultati son stati i seguenti: circa 1 milione di madri italiane (il 21% del totale) ha subito qualche forma di violenza ostetrica (fisica o psicologica) alla loro prima esperienza di maternità. UN’esperienza così traumatica da aver spinto il 6% delle donne a scegliere di non affrontare una seconda gravidanza.

Per violenza ostetrica nella ricerca in questione si intende: l’appropriazione dei processi riproduttivi della donna da parte del personale medico, costringere la donna a subire un cesareo non necessario, costringere la donna a subire una episiotomia non necessaria, costringere la donna a partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, esporre la donna nuda di fronte ad una molteplicità di soggetti, separare la madre dal bambino senza una ragione medica, non  coinvolgere la donna nei processi decisionali che riguardano il proprio corpo e il proprio parto, umiliare la donna verbalmente prima, dopo e durante il parto. Il 56% risponde no; il 23% risponde “credo di no”; il 21% risponde decisamente sì.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha rilevato come questi abusi fisici e maltrattamenti psicologici aumentino in presenza di donne appartenenti a minoranze etniche, in adolescenti, in donne che non hanno un compagno o un marito o in donne affette da HIV. Dal 2014 l’OMS invita ad abolire tali pratiche lesive della salute psico-fisica femminile, prevedendo una collaborazione tra Stati per la ricerca sul fenomeno e per avviare programmi rivolti ad un miglioramento dei servizi offerti dai sistemi sanitari.

IN Italia, l’11 marzo 2016 è stata depositata una proposta di legge per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico in risposta all’appello dell’OMS. La proposta di legge mira anche a punire gli atti di violenza con la reclusione da 2 a 4 anni. Nel 2017, dopo i risultati della ricerca dell’Osservatorio di cui abbiamo parlato pocanzi, viene avviata una indagine ministeriale sui tassi di episiotomia e sui casi di abusi, coercizioni e umiliazioni verbali durante il parto.

A livello internazionale il Brasile (che era uno dei Paesi ad aver raggiunto un livello di medicalizzazione del parto altissimo, fino a toccare ad esempio tassi di parti cesarei dell’80% in alcuni ospedali) è stato poi il primo Paese ad aprire un dibattito sulla violenza ostetrica e ad istituire nel 1993 la Rete per l’Umanizzazione del Lavoro e della Nascita. L’Argentina, invece, è stato il primo paese ad aver legiferato in materia di violenza ostetrica, stabilendo i diritti della partoriente.

Ma fu il Venezuela ad aver menzionato per la prima volta la violenza ostetrica e ad averla definita giuridicamente nel 2007 con una legge composta da ben 123 articoli. La violenza ostetrica in Venezuela viene intesa precisamente come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi femminili da parte del personale medico sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso della medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita dell’autonomia e di capacità di decisione sul proprio corpo e sulla propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità di vita delle donne”.

In Italia ad oggi le donne non si trovano di  fronte ad un sistema sanitario che le consideri partecipanti attive. Le donne con vissuti traumatici si esprimono sui social perché molto pochi sono i luoghi di ascolto dedicati alla violenza ostetrica. Certo non ci si aspetta questa indifferenza da un Paese avanzato e democratico come l’Italia.

Come andare verso una umanizzazione del parto e della maternità?

La violenza ostetrica è espressione di un sistema sanitario rigido che si concentra solo sulla patologia non prevedendo piani personalizzati. Il personale in Italia è quasi sempre sottodimensionato e ciò favorisce il burn out del personale che diventa sempre meno attento alle esigenze delle partorienti. In merito ai diritti delle donne è intervenuto anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, stabilendo la necessità di operare una riforma del sistema sanitario  in cui gli operatori sanitari siano ben istruiti nel comprendere cosa si intenda per maltrattamento, sviluppando al contempo interventi e politiche efficaci per contrastare la violenza ostetrica in tutte le sue forme. Il personale sanitario deve essere sufficientemente formato e abilitato a soddisfare le esigenze fisiche, emotive e mediche di ogni donna, di incentivare la partecipazione attiva e consapevole delle donne senza alimentare quell’asimmetria informativa che pone la medicina su un piedistallo e lontano dal paziente.

Progetti formativi in tal senso in alcuni Paesi dell’America Latina hanno dato già i loro risultati: miglioramento delle relazioni interpersonali, incremento dei parti pur rimanendo invariato il numero del personale sanitario che si ritrovava, però, ad essere più collaborativo. Solo in questo modo si potrà andare nella direzione di una MATERNITA’ UMANIZZATA ovvero: appagante e responsabilizzante, sia per le donne che per i fornitori di cure e  che promuova la partecipazione attiva della donna al processo decisionale.

Perché si è restii a parlare di violenza ostetrica? Solitamente sono gli stessi professionisti della salute che resistono all’uso del concetto di violenza. Spesso si preferisce parlare in termini positivi usando espressioni come “umanizzazione del parto” e “promozione dei diritti umani delle donne”. Tuttavia è stato solo introducendo e riconoscendo come un problema reale il termine VIOLENZA che il dibattito ha prodotto cambiamenti significativi. La violenza ostetrica è un fenomeno complesso che richiede un approccio multidimensionale, dal piano culturale a quello legislativo. Ogni Paese dovrebbe sviluppare una normativa adeguata e pertinente. Sarebbe utile anche implementare sistemi di segnalazione che consentano a donne e operatori sanitari di denunciare casi di violenza ostetrica. Anche dal punto di vista della vittima, è interessante osservare come le donne non siano in grado di definire bene cosa accade in ospedale al momento della nascita del loro bambino. Molte riferiscono di avvertire un malessere dopo il parto, uno stato a cui non sanno dare un nome.

È solo parlandone che prendono atto di aver subito una sorta di tradimento emotivo. Infatti, come afferma la vicepresidente dell’associazione “Dall’ostetrica”, il bisogno delle partorienti è principalmente quello di sentirsi al sicuro, di essere messe nelle condizioni di far prevalere il loro “sentire” durante il parto per poter connettersi con questo evento miracoloso che si appella ad istinti primordiali e di natura. L’abuso di medicalizzazione e la patologizzazione dei processi naturali, non fa altro che allontanare le donne da questa dimensione arcaica, facendole perdere la libertà di decidere liberamente del proprio corpo.

Dott.ssa Sonia Angelisi – sociologa e counselor sociolistico


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