L’AMBIGUITA’ MEDIATICA

 

MARCO LILLI 7 febbraio 2016Siano pubbliche o private, piuttosto che locali oppure nazionali, le televisioni anziché differenziarsi sembrano invece aver scelto, e dunque costantemente percorrere, una strada comune, perfino identica, se vogliamo.

Diciamo pure che abbiamo a che fare con contenitori di un qualcosa di difficilmente spiegabile dal punto di vista razionale, razionalità che a me piace qui intendere come quel processo cognitivo conscio finalizzato a portare un beneficio comune: alla collettività, tanto per intenderci.

Ogni giorno, i media in generale, ci propinano un tutto – cioè un contenitore – pieno di niente, del quale siamo in qualche misura costretti a nutrirci salvo che non si intenda restare estranei a ciò che ci circonda, anche se quello che ci circonda è un qualcosa di non meglio identificato, e nel quale contenitore da me inteso come vuoto risultano oramai del tutto disattese sia le parole quanto i significati alle stesse fin da sempre attribuiti.

Sempre a proposito della televisione, pubblica in particolare, si è passati a programmi e confronti diretti fra interlocutori, ad attacchi personali e strumentali per perseguire altri fini – privati, evidentemente – piuttosto inutili e infruttuosi, sempre con riguardo all’interesse collettivo.

Due termini calzano in proposito, almeno dal mio punto di vista: videocrazia, cioè la tendenza o possibilità che hanno taluni personaggi politici o di potere di cercare e dunque ottenere consenso facendo ricorso al mezzo televisivo; e telecrazia, vale a dire il potere che ha la televisione, come mezzo di comunicazione di massa di esercitare una notevole influenza sull’opinione pubblica. Tranne che non ci si illuda che nell’era di internet, dei social network soprattutto, la situazione sia migliore rispetto al periodo ex ante-social. Anche perché, riguardo i social network, mi si consenta aggiungere, tante persone vivono più su Facebook, Twitter e altri spazi sociali che nella vita reale, e per questo protagonisti di danni che il giorno in cui dovessero mai rendersene conto, nella migliore delle ipotesi, maturerebbero idee suicidiarie complicate da analizzare e tali da stravolgere anche i fondamenti dell’opera Il suicidio (1897), del sociologo francese Emile Durkheim (1858-1917).

Senza dubbio, nell’era dei social, almeno nei paesi democratici, una moltitudine di cittadini, spalmati su più fasce di età, ha la possibilità di informarsi ed esprimersi; ma, tuttavia, questo non credo sia sufficiente per poter affermate che la televisione, con le due tipiche caratteristiche di cui sopra – videocrazia e telecrazia – sia stata soppiantata dai nuovi mezzi di comunicazione e, vorrei aggiungere, nemmeno messa in crisi. Tant’è, che per chi detiene il potere la televisione sembra essere l’unico strumento ideale per veicolare i propri interessi propagandistici così da non rischiare – proprio per la sua specifica unidirezionalità – contraddizioni da parte del pubblico. E alla collettività, intesa come opinione pubblica, cosa resta? Poco, dal mio punto di vista. Anzi, diciamo pure niente.

A proposito di propaganda, tornano alla mente Hitler e Mussolini, fortemente influenzati da Gustave Le Bon (1841-1931), con la sua opera Psicologia delle folle (1895), i quali intuirono e compresero la necessità di coinvolgere la popolazione per portare a compimento i loro rispettivi programmi, e per fare ciò era necessario un articolato quanto efficiente e dunque efficace apparato comunicativo.

Non è un caso, secondo me, se l’Italia è il paese a più alta offerta televisiva dell’intera Europa, ma poi è quello più arretrato nel campo delle nuove tecnologie legate ad internet, come per esempio l’alta velocità via satellite, fibra, eccetera. E quanto altro ci sarebbe da dire su questo punto! Del resto, già il filosofo austriaco Ludwig Joseph Wittgenstein (1889-1951), si era espresso sul fatto che se e vero che tutto quanto è pensabile può allo stesso modo essere pensato, così come tutto quanto è possibile dire può essere chiaramente detto, allo stesso tempo non tutto quanto si può pensare può essere ugualmente detto, giacché, mi permetto di aggiungere, il “regime”, più o meno latente, non lo permetterebbe. Da questo punto vista, infatti, anche lo strumento della censura degli anni andati è stato in qualche misura adattato e perciò modellato alle esigenze della post-modernità.

Ecco allora che quando si parla di comunicazione pubblica questa dovrebbe essere in qualche misura messa in relazione all’etica, anche se, citando il filosofo spagnolo Fernando Savater (1947), in nessuna azione umana, osservata dall’esterno, c’è qualcosa che si possa definire inequivocabilmente etico. Infatti, ciò con cui abbiamo a che fare è solo il controllo sociale, cioè le leggi imposte dalla tradizione o dal diritto, le forme di rappresentazione ammesse o ripudiate e l’istinto di conservazione.

Proseguendo con il pensiero di Savater, l’etica, per essere possibile, dovrebbe riunire in se contemporaneamente l’universale e l’intima essenza, da cui si può dedurre che se un soggetto non è più che determinato l’etica è praticamente impossibile. Anche perché, ricordo il filosofo francese Jean-François Lyotard (1924-1998): in base a quale criterio è possibile stabilire quale legge sia obiettivamente giusta, oppure che un certo tipo di affermazione sia vera?

Tutto quanto ciò premesso: quale ruolo per la televisione, specie quella pubblica? Un compito educativo o meramente informativo e d’intrattenimento? Domande a cui da anni si articolano svariate risposte con altrettante diverse interpretazioni.

Per esempio, a proposito della recente diatriba politico-mediatica – contornata da farsa nemmeno tanto latente – riguardo la scelta di mandare in onda sulla televisione pubblica l’intervista, èrgo, presentazione del proprio libro, del figlio di un noto boss condannato per mafia, e anch’egli da interessante curriculum, chiedo: perché mai tale intervista-promozione non doveva essere trasmessa? E allo stesso modo: qual è, per ogni libero cittadino, il punto di discrimine tra il diritto di manifestare il proprio pensiero e quello di poterlo fare attraverso un veicolo comunicativo così imponente, quando, viceversa, lo stesso strumento non è a tutti garantito?

Tale comparsata televisiva è stata da tanti indicata come una scelta grave e scellerata ad opera del conduttore e di quanti lo hanno avallato, ciò anche se si è data la possibilità di intervenire e dunque eventualmente controbattere al soggetto intervistato da parte di alcuni ospiti in studio o in collegamento. Addirittura tale scelta è stata indicata da altri coma una sorta di nuovo scandalo Stato-mafia.

Ebbene, se da un lato ha una sua logicità che un figlio, anche di tal curriculum, manifesti parole d’amore all’indirizzo del proprio genitore, nonché, se ha una sua ragionevolezza giuridica che lo stesso soggetto abbia scelto di editare un libro di tal genere, in virtù di quel principio costituzionalmente garantito secondo il quale: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; da altra parte ancora, è a dir poco discutibile che la televisione pubblica dia risalto a tali scelte personali quando per mano delle stesse efferati crimini sono stati commessi.

Non da ultimo, riguarda quella scelta altrettanto discutibile secondo la quale per alcuni conduttori televisivi basta avere avuto qualche guaio giudiziario – certamente serio –, ed esserne usciti indenni – seppur dopo tante sofferenze –, per essere scelti come opinionisti su fatti e discipline che di tutto hanno bisogno per essere dibattuti tranne che di soggetti improvvisati tecnici – individuati come tali per disgrazia vissuta –; oppure di soggetti di cui non si comprende bene quale sia la linea di demarcazione fra il ruolo di esperto (vero) e quello di soubrette.

Forse fra tanti esempi dimenticavo quello “migliore”, cioè l’intervista rilasciata, sempre sulla televisione pubblica, da una nota showgirl argentina, la quale a domanda specifica su quanto contano i soldi, non ha esitato a rispondere: «Tanto, perché grazie a quelli sono riuscita a realizzare tutti i sogni che avevo». Che dire, adesso manca solo che qualcuno inviti la medesima a divulgare tra i giovani la sua “scuola” di pensiero!

Mi viene in mente Erasmo da Rotterdam (1466-1536), impegnatissimo ai suoi tempi per cercare di migliorare una società dilaniata dall’ignoranza e dal fanatismo, caratteristiche, aggiungo, evidentemente negative e all’origine di molteplici conflitti, nonché di degenerazione sociale.

Dott. Marco LILLI

Sociologo­Criminologo

www.sociologiacontemporanea.it

Rivista di Sociologia (ISSN 2421­5872)


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