LA QUESTIONE MORALE

MARCO LILLI 11.12.2015Con il presente contributo ho pensato di tornare, seppur senza pretesa di esaustività, su un tema che per anni ha caratterizzato alcuni studi sociologici ad oggetto il confronto fra il Nord e il Sud d’Italia, ma che in realtà, almeno dal mio punto di vista, riguarda tutte quelle realtà sociali in cui fanno da padrone: ignavia, invidia e l’agire solo in base a come si vorrebbe essere giudicati (positivamente) dagli altri, nonché altre caratteristiche umane tutt’altro che degne di nota positiva. Realtà, dunque, non tanto riconducibili alla posizione geografica, quanto al contesto sociale di riferimento, per esempio al modo di pensare e di agire di conseguenza; allo sviluppo culturale e quindi al bagaglio e livello culturale acquisito da ognuno; dal processo di socializzazione primaria e secondaria, allorché la seconda si esaurisca all’interno di quello stesso contesto o che comunque prevalga rispetto ad altre eventuali e successive esperienze avute dall’individuo. Per esempio, ricordo quando un tizio di provincia, con una carica politica in senso ad un consiglio di un Ente locale, arrestato per una questione di tangenti, una volta tornato alla sua carica istituzionale fu accolto da un lungo applauso dai suoi colleghi politici. Vi assicuro che il luogo teatro dei fatti non si trova nel Sud Italia.

Oppure quando un funzionario pubblico, arrestato, carcerato, processato e condannato, tornato ad occupare la stessa poltrona istituzionale per mezzo della quale aveva violato la legge, fu accolto a braccia aperte dai suoi colleghi e collaboratori e dagli stessi amministratori pubblici poiché, sostennero, alla fine trattasi di una brava persona. Anche in questo caso vi assicuro che il luogo teatro dei fatti non si trova nel Sud Italia.Ancora, quando due biechi personaggi, a dire di certe inchieste giudiziarie fiancheggiatori attivi di talune realtà criminali, arrestati per reati specifici, una volta tornati liberi sono stati accolti sulla pubblica piazza da scroscianti applausi e mazzi di fiori offerti da loro amici. Anche in questo caso il luogo teatro dei fatti non si trova nel Sud Italia. Ebbene, tutto questo è qualcosa che va ben oltre il processo di reinserimento sociale scaturente dal principio costituzionale sancito dall’articolo 27 comma 3, secondo il quale: «Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato», difatti, in casi del genere come quelli portati qui ad esempio, non trattasi di gesti di incoraggiamento a ricominciare una nuova vita, bensì trattasi, dal mio punto di vista, di una sorta di sodalità nemmeno tanto velata rispetto al comportamento delittuoso perpetrato dal reo.

Ciò premesso, il presente contributo prende quindi spunto da due noti studi condotti da illustri sociologi e politologi statunitensi sul rapporto tra Stato e cittadini (italiani), si tratta di Edward C. Banfield (1916-1999) e Robert D. Putnam (1941). Il tema attiene al fatto che l’Italia è stata sempre – così concludono gli studi – in bilico tra due tradizioni diverse: quella del civismo, cioè l’osservanza delle norme per il corretto convivere quotidiano, dettata appunto dal rispetto per i diritti altrui e dalla consapevolezza dei propri doveri; e quella del familismo, vale a dire il vincolo intenso di solidarietà fra i membri di una stessa “famiglia”. Pertanto, sulla base dello studio condotto da Putnam – pubblicato nel 1993 nell’opera dal titolo “La tradizione civica nelle regioni italiane” – queste due tradizioni civiche diverse portano inevitabilmente anche ad un diverso livello di capitale sociale, costituito da quel bagaglio relazionale e valoriale che un soggetto costruisce nel corso della propria esistenza in seno ad una determinata società di riferimento.

L’individuo, infatti, già nei primi anni di vita assorbe su di sé tutta una serie di norme e di valori che gli derivano dall’essere parte di un nucleo famigliare e di una data società; crescendo, il soggetto, inizierà poi ad ampliare la propria rete di conoscenze e a relazionarsi con individui dal bagaglio valoriale ed esperienziale diverso dal proprio. È entrando dunque in contatto con persone differenti per esperienza e per conoscenze, che l’individuo andrà ad accrescere il proprio capitale che si svilupperà all’interno della società stessa, con la conseguenza che nel corso della propria esistenza si relazionerà con altri soggetti accrescendo le proprie conoscenze, che gli permetteranno poi di perseguire fini altrimenti difficilmente raggiungibili. Putnam parla di una Italia dalle tradizioni civiche, cioè di un paese da sempre diviso da quelle sue stesse tradizioni civiche, vale a dire un mezzogiorno meno versato ai valori condivisi rispetto ad altre parti del Paese.

Un’analisi, quella di Putnam, ricordo datata 1993, che ancora oggi pare per certi versi resistere, e non certo, almeno dal mio punto di vista, per unidirezionale responsabilità dei cittadini che in qualche misura ne sono vittime sacrificali, ma evidentemente di classi dirigenti che speculano su queste diversità. Come a dire, aggiungo, che un Sud così diverso dal resto del Paese faccia in qualche misura comodo: «Quali circoli viziosi nel Sud hanno perpetuato lo sfruttamento e la dipendenza perenne? Per trovare una risposta a queste domande si deve pensare non solo in termini di causa ed effetto, ma in termini di equilibri sociali» (cfr. Putnam, 1993). Prosegue Putnam nel suo lavoro: «Le nuove istituzioni non hanno certamente risposto alle aspettative dei più ottimisti […] Faziosità e intralci di varia natura, inefficienza e semplice incompetenza affliggono ancora molte regioni. Questo è particolarmente vero nel Sud, che era molto meno predisposto del Nord a trarre vantaggio dai nuovi poteri a disposizione. Tutto il paese ha fatto notevoli progressi negli ultimi vent’anni, ma le regioni del Sud, se paragonate a quelle del Nord, non stanno meglio di vent’anni fa» (ibidem).

E inoltre: «Coloro che sono interessati alla democrazia e allo sviluppo del Sud dovrebbero certamente darsi da fare per costruire una comunità più civica all’interno della società, ma dovrebbero pensare in termini di tempi lunghi e non abbattersi se i risultati non arrivano immediatamente. Anche noi siamo d’accordo […] a procedere con la trasformazione delle strutture locali piuttosto che attendere iniziative nazionali […] Costruire il capitale sociale necessario non sarà facile, ma è la chiave che apre la porta alla democrazia» (ibidem). In realtà Putnam riprende e approfondisce il contributo offerto da Edward Banfield nell’opera pubblicata negli Stati Uniti, edita poi in italiano dal titolo “Le basi morali di una società arretrata” (1961), dalla quale ha elaborato la teoria del cosiddetto familismo amorale. Come riportato in innumerevoli recensioni al testo di Banfield, la propria tesi non ha mai smesso di suscitare un’eco estesa ben oltre il mondo degli studiosi. Infatti, l’espressione “familismo amorale”, utilizzata per spiegare l’arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all’arretratezza di taluni contesti, èrgo comunità, è diventata di uso corrente per etichettare una molteplicità di fenomeni, ma soprattutto per individuare una sorta di difetto fondamentale della società italiana.

Al contrario dello spirito civico, il familista amorale, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, si comporta secondo la regola massimizzante dei propri vantaggi materiali e immediati della famiglia di riferimento, col presupposto che tutti gli altri agiscano alla medesima maniera. Questa teoria nasce da una serie di osservazioni sul campo effettuate da Banfield in un paese del Sud Italia tra il 1954 e il 1955, dove non ancora quarantenne l’autore vi soggiornò per nove mesi, insieme alla moglie e ai due figli, studiando le relazioni sociali e le dinamiche inter-familiari della popolazione. Al termine della sua indagine Banfield rilevò alcune caratteristiche comportamentali di quei cittadini che egli interpretò alla luce della teoria del suddetto “familismo amorale”, che si basa, appunto, sulla constatata incapacità di agire per il bene collettivo, prevalendo su questo l’interesse materiale immediato della famiglia di appartenenza, da cui ne discendono comportamenti improntati a diffidenza e assenza di cooperazione.

Per esempio, sostiene Banfield: «In una società di familisti amorali, nessuno perseguirà l’interesse di gruppo, a meno che non ci sia un suo tornaconto personale […] Si agirà in violazione della legge ogni qual volta non ci sia il timore di una punizione […] Se qualcuno migliora la sua posizione, il vicino teme di venirsi a trovare in una posizione peggiore». Il valore che dobbiamo trarre da tali studi non può che ricondurre al concetto di impegno civico, il quale sta alla base di una società aperta, cioè fondata su principi e prassi fatti di solidarietà, fiducia, tolleranza e cooperazione fra i membri della società civile. Tuttavia, il concetto di “familista amorale”, cioè di colui disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, è un qualcosa che va ben oltre la differenziazione fatta dai due autorevoli studiosi, cioè tra Nord e Sud d’Italia, nel senso che, a mio modesto avviso, questa forma di spiccato egoismo è una caratteristica tipica di molteplici soggetti di codesta società cosiddetta moderna, o società dell’apparire, della quale fanno appunto parte individui falsamente altruisti, almeno quanto come in ugual misura sono evidenti ipocriti.

Da ciò tornano alla mente gli ineludibili principi dettati dall’Etica, quale riflessione filosofica sulla morale, quest’ultima intesa come quel «complesso di regole per il comportamento dell’uomo» (cfr. De Stefano, 2011). Un comportamento socialmente accettato e condiviso dai consociati che va assai al di là del rispetto di una qualsiasi norma giuridica, che per quanto importante possa esserne l’adempimento da parte di ognuno, quella morale è altra cosa. Di “questione morale” pare tutt’oggi attuale quella rappresentata da Enrico Berlinguer (1922-1984) in un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, pubblicata da “La Repubblica” il 28 luglio 1981: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude».

Ebbene, e concludo, se da un lato è vero che «l’insegnamento non deve assicurare solo la riproduzione delle competenze, ma anche il loro progresso», allora la conseguenza di ciò non può che portare al principio secondo cui «la trasmissione del sapere non dovrebbe limitarsi alla trasmissione di informazioni, ma anche comportare l’apprendimento di tutte le procedure in grado di migliorare la capacità di collegare i campi che l’organizzazione tradizionale del sapere tiene gelosamente separati» (cfr. Lyotard, 2010).

Dott. Marco LILLI

Sociologo-Criminologo

Bibliografia

Banfield E. (1961) Le basi morali di una società arretrata, Bologna, il Mulino.

De Stefano F. (2011) L’Io tra Società palese e Società occulta, Roma, ANS.

Lyotard J.F. (2010) La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli.

Putnam R. (1993) La tradizione civica nelle Regioni italiane, Milano, Mondadori.

 


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