IL SOCIOLOGO COME INTELLETTUALE NELLA VISIONE DI ANTONIO GRAMSCI

       

                                                                                                  Che cosa vuol dire per un sociologo essere anche un intellettuale?

Antonio-Sposito- sociologoIn questa sede per intellettuale non s’intende esclusivamente una persona dotata di conoscenze specifiche in grado di influenzare l’”opinione pubblica” e le organizzazioni politiche o di determinare curvature ideologiche, ma principalmente un individuo capace di connettere fenomenologie e saperi diversi tra loro, integrati in una visione strutturale e sistemica, portatore di un “logos” che orienti e migliori la società in cui esiste.In uno dei passi tratti da Quaderni dal carcere, Gramsci illustra l’identità e il ruolo dell’”intellettuale organico”e dell’”intellettuale tradizionale”.Il primo, collegato a gruppi sociali specifici, contribuisce al mantenimento del dominio di una classe egemone o all’emersione di una classe subalterna. Il secondo, può avere in principio relazioni con particolari classi per poi mutare nel tempo in una categoria sociale a se stante: “… che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi indipendentemente dalla lotta dei gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali” (A. Gramsci, Quaderno 11, § 16).Gramsci, nel precisare che non è possibile disgiungere l’homo faber dall’homo sapiens e che questa distinzione è una delle tante falsificazioni prodotte dal capitalismo, propone una intellettualità diffusa, una nuova tipologia di intellettuale non separato per professione e appartenenza di classe dal resto della società ma da questa proveniente, congiunto alla “classe lavoratrice” che ha il compito di costruire attivamente la sua emancipazione (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, vol. III, pp. 1550-1551).  Per Gramsci la “praxis” racchiude in sé sia la totalità dell’azione umana nella storia, sia la trasformazione rivoluzionaria della realtà. In tensione continua tra loro, “praxis” e “teoria” consentono la comprensione, così come sostenuto da Marx, dei dispositivi di dominio e dei rapporti tra le classi sociali, intesi poi da Gramsci in termini di “egemonia” e “subalternità”, il quale ha una visione critica della “sociologia positivistica” che imita il modello empirico delle “scienze della natura”, convinto che la stessa sociologia debba coincidere con la “filosofia della prassi”, rivendicando l’irriducibilità del sapere sociale a quello naturale.Rievocando anche Aristotele, la “praxis” riguarda l’”agire” che include in se stesso il suo “senso”, distinta dalla “poiesis”, intesa come “agire strumentale” finalizzato alla produzione di oggetti, alienati da coloro che li hanno generati. La conferma di quanto affermato si trova all’interno della Sociolinguistica europea, in cui la prevalenza semantica del concetto “praxis” ha definito proprio l’”agire” che fonda l’”azione morale”.

Non a caso, dunque, nell’attuale dibattito che verte sull’utilizzo del sociologo nella società e nelle istituzioni, si è evidenziata la proposta avanzata da Michael Burawoy (professore di Sociologia al Department of Sociology University California-Berkeley), il quale, nell’intento di creare una “sociologia pubblica”, realizza una stretta di mano ideale tra Gramsci e il sociologo statunitense Charles Wright Mills. Mills, infatti, nel ricondursi ai sociologi ottocenteschi fondatori della disciplina, per i quali il lavoro scientifico e l’impegno morale non erano scindibili, affronta la questione della “divisione del lavoro sociologico”, sostenendo che la sociologia dovrebbe unificarsi nel suo essere “sociologia pubblica”.Al fine, quindi, di creare una comunità scientifica che assuma un’identità professionale definita e riconoscibile, soprattutto in un Paese quale l’Italia, connotato dall’insufficiente impiego negli apparati chiave delle strutture istituzionali e politiche degli stessi sociologi, la concezione di Gramsci del partito operaio come “intellettuale collettivo”, che aveva il compito di unificazione sociale rimasto incompiuto nel Risorgimento, va, dunque, ritradotta dai sociologi come capacità effettiva di unificare la “divisione del lavoro sociologico”. Pertanto, nella società occidentale postmoderna e “liquida”, complessa e frantumata, assediata dal totalitarismo dei mercati finanziari e dalla “globalizzazione”, in cui assistiamo impotenti all’erosione del Welfare e al crescente divario tra ‘”ethos civile” e sistemi politico-sociali, in cui la reciprocità, la solidarietà, l’”agire comunicativo” di Habermas, sono obiettivi sempre più ardui da realizzare, è lecito sostenere che l’unificazione della sociologia in public sociology è una condizione per la crescita civica di tutti i cittadini.

Si può, dunque, sostenere che il benessere della società passa attraverso l’utilizzo dei sociologi.

antonio_gramsciÈ indispensabile, quindi, decentrare l’attenzione dalle politics (caratterizzate dalla lotta per il potere) per focalizzarsi sulla congiunzione tra “teoria” e “praxis” che si substantia proprio nelle “politiche pubbliche” (policy) formali e informali, incentrate sull’espe-rienza del disagio sociale che coinvolge numerosi cittadini che paradossalmente abitano nell’“affluent society” (“società opulenta”), così definita da John Kenneth Galbraith. La “praxis” non riguarda, dunque, le élite politiche dominanti o gli “intellettuali organici” che esaltano l’aumento del PIL e la “finanziarizzazione” della società mondiale ma chi ha a cuore la risoluzione delle ingiustizie sociali, le quali pongono l’ineludibile “questione morale” di una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta, coniugabile con l’idea di “umanesimo socialista”, non riconducibile essenzialmente all’idea di partito politico ma a un valore incarnato nelle stesse policy. Altro ragguardevole tema posto da Gramsci è la “Questione Meridionale” che ancora oggi provoca disagio sociale, cui devono farsi carico non soltanto i sociologi del Sud-Italia, coinvolti per logica appartenenza territoriale, ma tutti quelli che si considerano “meridionalisti” e “intellettuali non organici”. Gramsci, nonostante fosse uomo del Sud, riteneva – soprattutto dopo il processo risorgimentale di unificazione del Paese – che il divario tra Nord e Meridione di Italia non potesse essere rubricato soltanto come problema politico locale. Egli giammai propose soluzioni che provocassero conflitti tra parti geo-sociali del Paese, evitando così derive politiche secessioniste.Per Gramsci la “Questione Meridionale” confluisce nella più ampia “Questione Nazionale”. A conferma di ciò nel 1916 egli affermò: “Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali” (A. Gramsci, La questione meridionale, (a cura di Stefania Caledda), Davide Zedda Editore, Cagliari, 2008, p.3).Ebbene, dopo 158 anni dalla costituzione politico-amministrativa unitaria dell’Italia è tuttora di palmare evidenza che il divario Nord/Sud si sia maggiormente ampliato, accresciuto negli ultimi anni di recessione economica, la quale ha avuto, di fatto, un’incidenza nel Mezzogiorno raddoppiata rispetto a quella registrata nel Nord Italia in termini di reddito e occupazione (Per i dati sull’argomento si veda nota. Fonte: CGIA MESTRE).

Per cui, nel tentativo di risolvere o attenuare gli effetti tutt’oggi presenti del disagio socio-economico che ancora caratterizza il Sud, caratterizzato da condizioni esistenziali moralmente ingiuste tra le quali: emarginazione, marginalizzazione, disuguaglianze, e registrati nel tempo i fallimenti prodotti dall’“assistenzialismo” attuato dalle élite politiche e intellettuali meridionali e non avvicendatesi nel corso dei decenni,  sarebbe auspicabile che i sociologi riconsiderino in termini strutturali i concetti gramsciani di “totalità”, “trasformazione rivoluzionaria”, “dominio”, “egemonia” e “subalternità.All’interno della “sociologia pubblica”, per i sociologi unificare “teoria” e “praxis” comporterebbe rendere i cittadini, costituenti l’”opinione pubblica”, soggetti intel-lettualmente attivi, capaci di elaborare criticamente la loro condizione socio-economica, di astrarla teoricamente, contestualizzarla, determinando, in tal modo, un consapevole “bios politikos”, ossia, un “agire politico” che assicuri la partecipazione attiva nella gestione della “res publica”. Soltanto così la “sociologia pubblica” diviene “sociologia della prassi”, ovvero, strumento d’azione politica e morale. Ormai non è più tempo di separazioni. Pertanto, i sociologi, portatori di un residuo “afflato rivoluzionario”, che credono ancora in un ordine diverso da quello imposto dalla società mondiale globalizzata, giunta a un certo grado del suo sviluppo storico, politico e sociale, che desiderano essere protagonisti della trasformazione anche morale di una realtà iniqua, devono necessariamente unire il “bios theoretikos” e la “praxis” facendo-li confluire nella “sociologia pubblica”.

NOTA: Nel 2007 in termini di Pil pro-capite il gap tra Nord e Sud del Paese era di 14.255 euro (Nord valore medio Euro 32.680, Sud Euro 18.426), nel 2015 (ultimo anno della disponibilità dei dati su scala regionale) il differenziale si è elevato a Euro 14.905 euro (Nord valore medio Euro 32.889 Sud 17.984, variazione assoluta tra il 2015 e il 2007 +650 euro). Al Sud le variazioni percentuali in negative sono state riscontrate in Sardegna (- 2,3 per cento) in Sicilia (- 4,4 per cento), in Campania (- 5,6 per cento) e in Molise (- 11,2 per cento). In positivo, Basilicata (+0,6 per cento) e Puglia (+0,9 per cento). [Dati aggiornati al Giugno 2017]

 

Antonio Sposito- sociologo

 

Bibliografia

  1. Buroway, “For Public Sociology”, American Sociological Review 70: 4-28, 2005 / Anche in “Sociologica”, Rivista, Il Mulino, n.1, 2007, Bologna.
  2. Erich Fromm, L’umanesimo socialista, Dedalo libri, Bari, 1971.
  3. Gramsci, La questione meridionale, (a cura di Stefania Caledda), Davide Zedda Editore, Cagliari, 2008, p.3.
  4. Gramsci, Quaderno 11, § 16.
  5. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, vol. III, pp. 1550-1551.

Fonti statistiche

CGIA Mestre

                                              


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