Il mito della rivoluzione digitale

di Patrizio Paolinelli

Come tutti gli eventi destinati a incidere sulla società anche la rivoluzione digitale ha necessità di un’origine mitologica. La cui narrazione prevede tempi, eroi, saperi, luoghi, azioni e scopi. I tempi: gli anni ’70 del XX secolo; gli eroi: una pattuglia di giovani imprenditori; i saperi: la padronanza dell’informatica; i luoghi: la Silicon Valley; le azioni: applicare la tecnologia digitale all’elettronica di consumo; gli scopi: realizzare profitti.

<<=== Prof. Patrizio Paolinelli

La sequenza appena illustrata è un modo non celebrativo di inquadrare il mito della rivoluzione digitale. Cosa che fino a qualche tempo fa avrebbe infastidito parecchio i cantori della futura civiltà del silicio. E dal loro punto di vista a ragione: i grandi successi commerciali realizzati negli anni ’80 con la nascita della new economy lasciavano presagire l’avvento di una nuova età dell’oro per l’intera umanità. Un’età in cui gli eroi delle nuove tecnologie ci assicuravano che il lavoro sarebbe stato meno faticoso, si sarebbe inquinato meno e la vita di tutti avrebbe fatto un eccezionale salto di qualità.

Molta acqua è passata sotto i ponti e l’età dell’oro ha arriso solo a una ristrettissima cerchia di imprenditori. Rispetto alla vecchia società industriale sul fronte della fatica, dell’ambiente e della qualità della vita la situazione non è migliorata. Anzi, per molti aspetti è peggiorata anche grazie alle nuove tecnologie, che hanno permesso un migliore sfruttamento di ogni risorsa: umana, naturale, sociale. A oltre cinquant’anni di distanza dalla commercializzazione del primo microprocessore (1971) la giornata lavorativa si è dilatata a tal punto da far evaporare il confine tra tempo libero e tempo di lavoro; siamo a un passo dal collasso ecologico planetario; le disuguaglianze sociali sono aumentate, così pure la povertà e per la maggioranza degli abitanti dei Paesi sviluppati la vita quotidiana è un’affannata caccia al reddito per tirare avanti.

Queste e molte altre regressioni non cozzano affatto con una tecnologia sempre più avanzata. E il mito della rivoluzione digitale ha la funzione di mantenere attiva questa contraddizione senza farla esplodere. Una delle sue colonne portanti è il determinismo tecnologico. Ossia l’idea secondo la quale l’innovazione tecnologica è in grado, da sola, di cambiare la società. È una convinzione sbagliata perché nessun passaggio da un modo di produzione a un altro, da un modello sociale a un altro, da una civiltà a un’altra è possibile senza che l’innovazione tecnologica si combini con altre forze trainanti del mutamento sociale: forze economiche, politiche, valoriali e demografiche. Ironia della sorte questa conclusione è alla portata di tutti e si apprende nei manuali introduttivi di storia e di sociologia. Eppure è bellamente ignorata. E al suo posto il mito fa appello al seguente costrutto: le rivoluzioni industriali sono generate esclusivamente dal passaggio da una tecnologia all’altra: dalla macchina a vapore ai robot di ultima generazione tanto per capirci. Secondo questa vulgata la successione di invenzioni ha permesso il passaggio dall’artigianato alla meccanizzazione della manifattura alla fine del XIII secolo, successivamente alla produzione di massa all’inizio del XX secolo, all’automazione alla fine degli anni ’50 del ‘900, fino a arrivare ai sistemi cibernetici oggi.

Come si vede da questa ricostruzione il determinismo tecnologico è teoria della storia assai miope. In realtà le rivoluzioni industriali furono e sono fenomeni sociali molto complessi in cui interagiscono e confliggono molteplici fattori, non ultimi i rapporti di forza tra le classi. Per esempio, sul piano politico in Inghilterra la prima rivoluzione industriale fu possibile grazie alle leggi che permisero la recinzione delle terre comuni creando così una massa di contadini disoccupati da destinare alle fabbriche; sul piano valoriale il protestantesimo favorì l’accumulazione di capitali; sul piano del conflitto sociale la contestazione operaia innescò l’automazione nelle fabbriche; sul piano dell’ordine del tempo il progressivo aumento di ore extralavorative permise l’incremento dei consumi. Dunque, la tecnologia da sola serve a poco. Tantomeno a spiegare i grandi mutamenti sociali.

Ma vediamo due casi. Primo caso: nel XV secolo in Cina la scienza e la tecnologia erano molto avanzate. Tuttavia non sfociarono nello sviluppo industriale perché mancavano le condizioni politiche, economiche e culturali. E così la Cina finì preda delle mire coloniali occidentali ed è uscita dall’arretratezza solo di recente. Secondo caso: ci si potrebbe chiedere come mai ancora oggi l’Europa è a rimorchio degli Stati Uniti sul fronte dell’alta tecnologia. Eppure non ci mancano né le competenze né le risorse economiche. La risposta è semplice: dopo due rovinose guerre mondiali non siamo più il centro del mondo. E così gli Stati Uniti ci impongono i loro monopoli dell’hi-tech impedendoci, tanto per dirne una, di avere un competitivo motore di ricerca. In altre parole ci tengono sotto la loro dipendenza. Se poi l’Europa si azzarda anche solo a ipotizzare una blanda tassazione delle corporation del Web a stelle e strisce è minacciata di ritorsioni dal governo statunitense. Perciò non se ne fa nulla e Amazon, Google e Facebook spadroneggiano nel Vecchio continente.

La geopolitica del digitale dà il colpo di grazia al determinismo tecnologico e nel crollo si porta dietro altre colonne del mito della rivoluzione digitale. Vediamone alcune. Iniziamo dalla pretesa autonomia della rivoluzione digitale, solitamente presentata come un evento generato in California da eroici imprenditori-innovatori. In realtà la rivoluzione digitale è figlia della terza rivoluzione industriale avvenuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900. Perciò, per quanto breve, ha alle spalle una storia. Storia che per di più non nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico ma nei centri direzionali della grande industria statunitense. I quali avviarono una prima grande ondata d’automazione nelle fabbriche e negli uffici. Novità che comportò lunghe e appassionate discussioni sull’impatto negativo che avrebbe avuto sull’occupazione. Argomento tornato oggi di grande attualità per l’introduzione nel mondo del lavoro dell’intelligenza artificiale, della robotica, dell’Internet delle cose e così via.

A questo punto troviamo un interessante reperto. Quando si affronta il tema del rapporto tra tecnologia e occupazione ancora oggi si ricorre alle medesime argomentazioni degli anni ’60. La più gettonata: gli occupati di un comparto non più al centro del sistema produttivo passano a un altro; non è avvenuto così col passaggio dall’agricoltura all’industria e poi dall’industria al terziario? Negli anni ’60 Pollock chiamò questo meccanica equazione “teoria della compensazione”. Se oggi si fa notare a un apostolo della rivoluzione digitale che la disoccupazione tecnologica ha già ridotto drasticamente i posti di lavoro nell’industria manifatturiera e sta iniziando a minacciare seriamente il terziario ci si sentirà regolarmente controbattere: nessun problema, le nuove tecnologie creeranno più posti di lavoro di quanti ne distruggano. Come? E qui casca l’asino: non si sa. Il mito però non si arrende ed è un produttore infaticabile di parole. Quando si affronta il tema della disoccupazione tecnologica esperti, convegnisti, giornalisti, accademici, imprenditori, manager, conferenzieri, scienziati e visionari finiscono regolarmente per rinviare a un ottimistico domani: l’età dell’oro ci attende, abbiate fede.

Nel frattempo da decenni i fatti smentiscono il mito: a causa della robotica le fabbriche si svuotano sempre di più; nel terziario l’intelligenza artificiale sta iniziando a minacciare persino le attività a elevato contenuto intellettuale; le nuove professioni nate con l’economia digitale non sono minimamente in grado di assorbire la forza-lavoro espulsa dall’industria e dal terziario tradizionali; l’alta tecnologia ha generato nuove figure professionali che, a parte pochi fortunati, dal punto di vista del reddito vivono in gran parte nella più assoluta incertezza e addirittura sono sottoposte a forme di lavoro para-schiaviste come nel caso dei riders. In quanto alle leggendarie micro e piccole imprese negli atelier digitali il livello di autosfruttamento è altissimo. E nelle grandi corporation dell’hi-tech? Il lavoro non si è trasformato in un gioco come annunciavano tanti profeti della new economy, ma vigono le vecchie gerarchie industriali adeguatamente aggiornate per sfruttare meglio tecnici e ingegneri legandoli tramite vari benifts ai destini dell’azienda.

Naturalmente il mito oppone alla realtà il suo racconto. Tra i più astuti troviamo il seguente: è vero, l’automazione provoca la perdita di posti di lavoro, ma così le imprese diventeranno più produttive creando in tal modo nuovi capitali per nuovi business i quali a loro volta daranno vita a nuove aziende che occuperanno la forza-lavoro espulsa dagli altri comparti. Affinché questo teorema si realizzi occorrerebbe che le persone abbiano un buon reddito e la sicurezza del posto di lavoro, mentre con l’avvento del neoliberismo da circa quarant’anni si va nella direzione opposta. E comunque neanche questa è una tesi nuova e Luciano Gallino la smontò più di vent’anni fa sostenendo, dati alla mano, che è impossibile ipotizzare uno scenario in cui tra il 75 e l’83 per cento della forza lavoro sarà impiegata nei servizi perché anche questi saranno in buona misura automatizzati. E così, grazie all’innovazione tecnologica, nel medio-lungo termine il 20% della popolazione in grado di lavorare basterà per tenere in moto l’intera economia mondiale. Il resto come si procurerà da vivere? Gallino: “Una parte … svolgerebbe saltuariamente lavori di servizio a bassa qualificazione. Una quota sostenuta navigherebbe – o appunto già naviga – nelle profondità dell’economia sommersa. Altri vivrebbero in condizioni di insicurezza estrema, nel migliore dei casi ricavando per qualche anno un reddito elevato, a prezzo di orari da 70-80 ore la settimana, saltando come forsennati da uno spezzone di lavoro all’altro, senza mai poter dire cosa gli riserverà il domani, o fino a quando gli reggerà il cuore o la testa. Un’altra quota ancora – ma sicuramente di questo mercato del lavoro vi sarebbe un andirivieni ininterrotto – camperebbe di sussidi, d’indennità temporanee di disoccupazione, di pensioni sociali, di assistenza per mano del terzo settore, di salari minimi elargiti per lavori finti. Sarebbe […] il dominio della disoccupazione, dell’occupazione precaria e della mala occupazione”.

Le profetiche parole di Gallino ci conducono a una prima conclusione. La rivoluzione digitale non ha mutato i rapporti di produzione, che rimangono saldamente capitalistici; pertanto non ha condotto a una nuova formazione sociale così come avvenne col passaggio dal mondo della nobiltà feudale a quello dell’imprenditoria borghese. In tal senso parlare di rivoluzione quando si parla di digitale è del tutto improprio perché la tecnologia informatica è nuova ma la società rimane vecchia. L’innovazione tecnologica in atto più che cambiare il mondo cambia le forme del dominio capitalistico sul mondo. Ciò non significa negare che la data-economy ha effettivamente innescato profondi sconvolgimenti nella sfera della produzione e del consumo, della comunicazione e della socializzazione. Ma tali sconvolgimenti sono avvenuti all’insegna della continuità col passato industriale, così come il neoliberismo è in continuità col liberismo.

Non sarà certo l’opera di smascheramento del mito a far cadere il capitalismo digitale. Per quanto ci riguarda non ci facciamo illusioni: a differenza di un tempo le armi della critica servono ormai a poco. Non perché ci sia tolta la libertà di parola. Ma perché il mito ha una forza tale da oscurare qualsiasi esercizio della ragione volto a disvelare la realtà. Situazione interessante perché i miti contemporanei non sono il risultato di processi culturali che emergono dalla notte dei tempi. Ma vengono scientificamente costruiti a tavolino: il logos è messo al servizio del mithos. Si pensi alla Silicon Valley. Nell’immaginario collettivo è considerata come l’olimpo della pura iniziativa imprenditoriale. In realtà deve la prosperità delle sue corporation a massicci finanziamenti pubblici del governo statunitense. Bisogna prenderne atto: oggi il falso è più vero del vero. Siamo dunque destinati a entrare in una sorta di medioevo elettronico fatto di masse di creduloni in messianica attesa della nuova età dell’oro? Al momento sembrerebbe di sì. Quanto durerà sarà la storia a dirlo.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 27 giugno 2020.


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