Essere performanti

di Patrizio Paolinelli

Ecco un repertorio linguistico diventato familiare: capitale umano, imprenditori di sé stessi, meritocrazia, management del sé, leadership, coaching, empowerment, concorrenza.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Proprio in quanto ordine discorsivo tale repertorio è portatore della Weltanschauung neoliberista oggi imperante e viene analizzato in chiave sociologica da Federico Chicchi e Anna Simone in un libro intitolato “La società della prestazione”, (Ediesse, Roma, 2017, pagg., 12,00 euro).

A onore della casa editrice va riconosciuto che il libro è molto ben curato. Presenta persino un indice analitico. Strumento utilissimo per il lettore, ma da decenni scomparso per risparmiare sui costi di produzione. Lascia invece perplessi il fatto che il libro sia uscito in una collana dichiaratamente divulgativa. In realtà il testo è scritto con un linguaggio specialistico e presume un lettore che abbia grande dimestichezza con le scienze umane. Per farla breve “La società della prestazione” è un’opera accademica destinata a esperti e studenti. Il che ci sembra un peccato perché il libro avrebbe meritato un pubblico più vasto. E ora entriamo in argomento.  

Il principio di prestazione è un noto concetto elaborato da Herbert Marcuse in “Eros e civiltà”.  Nella riflessione del pensatore tedesco tale concetto rappresenta “la forma storica prevalente del principio di realtà”. In soldoni significa che costituisce una delle forme repressive della società capitalistica avanzata e si fonda sull’adattamento dell’individuo al ruolo che la divisione in classi e divisione del lavoro gli impongono.

Prendendo le mosse da Marcuse, Chicchi e Simone sviluppano il concetto di prestazione a tal punto da presentarlo come un passe-partout in grado di interpretare e definire la società contemporanea. In virtù di questa estensione compiono un primo passo che li allontana dall’esponente della Scuola di Francoforte, per il quale invece la prestazione costituisce un elemento di un sistema di dominio assai più complesso. Ma ciò che li separa del tutto da Marcuse è il collegamento della prestazione al desiderio anziché al lavoro. Ipotesi sorprendente e che viene a lungo motivata nel corso del libro.

Per spiegarla Chicchi e Simone abbracciano la tesi secondo la quale il postfordismo ha messo in crisi l’idea novecentesca del lavoro. Il presupposto di tale tesi è che le frontiere tra lavoro e non lavoro siano evaporate: in pratica si lavora sempre. La centralità sociale è dunque assunta dalla prestazione: in ogni momento del vivere occorre essere performanti. Ossia: sapersi proporre, riuscire a vendersi, vincere sugli altri, non arrendersi mai. In poche parole, la società della prestazione non fa altro che creare, alimentare e sfruttare queste disposizioni rendendole commerciabili. Per sostenere la propria intuizione Chicchi e Simone fanno riferimento all’idea di società del rischio di Ulrich Beck, alla critica di Christopher Lasch nei confronti della cultura del narcisismo e all’idea di società della stanchezza sostenuta da Byung-Chul Han.

A differenza di Marcuse questi tre autori non hanno contribuito a stimolare il rifiuto del sistema sociale in cui viviamo né hanno prospettato, anche solo in linea teorica, il superamento del capitalismo. Si tratta di limiti che comportano una disamina tutta intellettuale della società. Ciò non toglie che Chicchi e Simone non denuncino problemi, ingiustizie e contraddizioni della società neoliberista. Per esempio quando affrontano le psicopatologie della prestazione: l’obbligo ad avere sempre successo genera eserciti di depressi e di disturbati mentali. Altro esempio: il condizionamento mentale effettuato dai cosiddetti coacher: i quali addestrano i clienti non a vivere meglio ma a ottenere risultati come se dovessero sempre vincere una gara.

Essere sempre “prestanti” ha un costo soggettivo e sociale enorme. Genera una sofferenza diffusa e un mondo di squilibrati. Esperienza che ognuno di noi fa quotidianamente. E a proposito di squilibri   per Chicchi e Simone due film rappresentano le polarità della società della prestazione: il Lupo di Wall Street, di Martin Scorsese, e Daniel Blake, di Ken Loach. Nella prima pellicola uno spregiudicato broker, dedito all’alcol e alla droga nella vita privata e alla truffa e all’imbonimento in quella pubblica, imbroglia una quantità enorme di ingenui risparmiatori. Alla fine il suo castello crolla, ma pur caduto in disgrazia se la cava. Il protagonista del film di Kean Loach non è un vincente che perde, è uno che ha perso in partenza: un carpentiere infartuato. Danielnon può più lavorare e lotta con un welfare ormai aziendalizzato per ottenere l’assistenza necessaria per sopravvivere. Il giorno prima del processo di ricorso per ottenere l’indennità per malattia Daniel muore. Entrambi i personaggi sono vittime dell’insicurezza in cui il neoliberismo ha gettato le vite di tutti. E naturalmente il meno performante ci lascia la pelle.

Come si resiste alla società della prestazione? In tre modi suggeriscono Chicchi e Simone: attraverso la misura, il desiderio e l’arte. La misura si può tradurre in un reddito di base a difesa dei soggetti sociali più vulnerabili; il desiderio va sottratto alla tirannia della performance e inteso come rigenerazione del sé in rapporto agli altri; l’arte dovrebbe liberare l’individuo facendolo diventare un soggetto in grado di affrontare l’imprevisto in maniera imprevedibile.

Col rispetto dovuto ci sembra di poter dire che la ricetta di Chicchi e Simone è debolissima. E lo è perché debolissimi sono i pilastri su cui si fonda la loro teoria, a iniziare dal concetto di società del rischio. Come è ormai tipico della sociologia accademica quello che manca nel loro libro è un’analisi dei rapporti di forza tra le classi, tra politica e mercato, tra sapere e spettacolo. Invocare “una via etica all’umano” è ammirevole ma inefficace. Appoggiarsi a Foucault, Lacan e Castel (quest’ultimo parecchio sopravvalutato da Chicchi e Simone) è stimolante ma intellettualistico. Un intellettualismo che paradossalmente non comprende la natura del capitalismo e del suo attuale volto, il neoliberismo. Il quale persegue il proprio progetto sociale e lo perseguirà a costo di commettere qualsiasi violenza nei confronti della società. Lo sta già facendo da decenni e non basteranno certo le buone intenzioni a fermarlo.

Per chiudere, resta da dire che oggi contiamo almeno una ventina di definizioni diverse della nostra società. Una vera e propria babele. È utile che Chicchi e Simone ne abbiano aggiunta un’altra? Lasciamo aperta la domanda. E tuttavia non possiamo esimerci dal ricordare che la nostra era ed è una società capitalistica. Capiamo che ciò dispiaccia perché l’accademia ha sete di continue novità per alimentare dibattiti, convegni, pubblicazioni, carriere e così via. Ma è da un’analisi del capitalismo che bisogna partire. Altrimenti, sul piano della conoscenza si perde la rotta e sul piano sociale si perde la battaglia.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 10 ottobre 2020.


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