UOMINI CHE UCCIDONO LE DONNE: LA VIOLENZA DI GENERE

SONIA ANGELISI

Per arrivare a comprendere cosa spinge alla violenza di genere, è importante prima fare chiarezza sulle differenze di genere. Si nasce maschi e femmine e si diventa uomini e donne. Cosa significa? Che nasciamo biologicamente con caratteri sessuali di maschi e femmine, ma il nostro ruolo sociale di uomini e donne si costruisce nel tempo attraverso le pratiche di socializzazione e l’educazione. Gli uomini e le donne apprendono i rispettivi ruoli di genere attraverso sistemi di ricompense e punizioni che incoraggiano alla conformità di genere. In realtà, non esiste una tendenza “naturale” di uomini e donne, ma una costruzione sociale di differenze tra i sessi, tant’è che la differenza nei ruoli tra uomini e donne variano da cultura a cultura; ad esempio, in alcune tribù della Nuova Guinea gli uomini e le donne si occupano entrambi della cura dei bambini e attributi come la gentilezza e l’affettuosità, non sono appannaggio delle sole donne. La sociologa Margaret Mead agli inizi del ‘900 fu la prima a sostenere che il genere non si fonda su differenze biologiche tra i sessi, ma riflette i condizionamenti culturali della società di appartenenza. L’opera di Mead ha gettato le basi per la cosiddetta “rivoluzione sessuale” iniziata negli anni ’60 che ha incentivato una maggiore partecipazione femminile alla vita pubblica.

Il considerare dei ruoli stabiliti naturalmente tra uomini e donne, ha portato a considerare l’eterosessualità come l’unica, innata e “normale” forma di sessualità, secondo la quale gli uomini sono considerati attivi e le donne passive. L’eterossessualità viene protetta e promossa dall’ideologia dominante affinchè essa sia riconosciuta come un’istituzione e un sistema di potere che privilegia gli uomini e sottomette le donne. L’ideologia possiamo riconoscerla, ad esempio: nel tentativo di escludere le donne dal mondo del lavoro costringendole ad una dipendenza finanziaria dall’uomo, attraverso la diffusione di storie romantiche e film che mostrano le relazioni eterossessuali come normali e quelle omosessuali come deviate, l’idea che le donne siano prede della violenza e quindi debbano ricercare protezione in una relazione con un uomo. La società si identifica con l’uomo, le cui esigenze hanno una rilevanza maggiore e le donne tendono a privilegiare le relazioni (amorose) con gli uomini anziché coltivare le relazioni (amicali o amorose) tra donne. Addirittura Adrienne Rich, poetessa e saggista che mise in discussione l’eterossessualità come istituzione, parla di “lesbismo politico”: una forma di opposizione al patriarcato un cui il lesbismo può essere interpretato come un continuum che include le donne attratte dallo stesso sesso e quelle eterosessuali, ma vicine in termini politici ad altre donne.

Perché l’eterosessualità è considerata un sistema di potere? Perché, come afferma sempre Adrienne Rich: “incoraggia strutture di pensiero binarie: eterosessuale/omosessuale, uomo/donna, dove il primo elemento di ogni coppia è privilegiato rispetto al secondo; l’eterosessualità obbligatoria ci presenta copioni ovvero modelli per la gestione dei rapporti”[1]. Carol Smart, sociologa statunitense, affermava come l’identità eterosessuale al pari dell’identità coloniale bianca, non sia altro che l’imposizione di una ideologia dominante per riaffermare rapporti di potere. Uno dei messaggi più dannosi, continua la Rich, è trasmesso dalla pornografia in cui le donne sono prede sessuali naturali degli uomini, costrette a subire l’umiliazione e la violenza sessuale: la sessualità e la violenza convergono.

Accanto alla violenza simbolica dell’ideologia, dunque, si affianca anche la violenza fisica per controllare i comportamenti delle donne (mutilazione genitale femminile, punizioni per l’adulterio). Basti pensare che fino agli anni ’90, in molti Paesi occidentali, lo stupro coniugale non era considerato reato. Lo stesso sfruttamento della donna in casa attraverso l’istituzione del contratto matrimoniale (che altro non è se non un contratto di lavoro in cui si beneficia del lavoro non retribuito della moglie), è una conseguenza della combinazione tra patriarcato e capitalismo, entrambi volti alla conservazione del predominio e del controllo maschili. A rafforzare questa tesi, basti pensare che il lavoro domestico non retribuito non dipende dalla natura del lavoro in sé, poiché quando questo viene svolto fuori dall’ambito familiare prevede un compenso. Il lavoro domestico, perciò, rappresenta una forma di sfruttamento nelle società capitaliste e patriarcali: sia perché considerato di basso livello, sia perché offre scarse opportunità per la creatività e l’autorealizzazione. E’ un lavoro che implica isolamento, monotonia, noia, una continua ripetizione di mansioni in lotta contro il tempo. La sociologa e femminista Ann Oakley afferma: “La vita domestica delle donne è un circolo di deprivazione appresa e sottomissione indotta”.

Un’altra famosa studiosa di genere, Judith Butler, afferma che la divisione della società in due sessi è il prodotto, non la causa, della disuguaglianza

Negli ultimi anni, il quadro finora prospettato ha subito delle variazioni importanti. Le donne si stanno opponendo ai rapporti patriarcali e i tradizionali ruoli famigliari dell’uomo lavoratore e della donna casalinga non hanno più rilevanza. Emergono nuovi modelli di famiglia definiti famiglia postmoderna (famiglie gay e lesbiche, coppie conviventi e nuclei monoparentali) che, tuttavia, fanno fatica ad acquisire i medesimi diritti della famiglia tradizionale riconosciuta dalle istituzioni. Difatti, la tendenza a definire la sessualità è sia un costrutto sociale sia una forma di controllo: è la legge a decidere a chi è consentito sposarsi, adottare bambini, fare sesso, ecc. (Jefrrey Weeks).

L’origine culturale della violenza di genere la sua prevenzione, dunque, passano attraverso immaginari sociali e stereotipi radicati nella nostra società. Secondo l’Onu, nel mondo la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne è la violenza degli uomini. Dalla Declaration on the elimination of violence against women, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 20 december 1993, New York, la violenza contro le donne è definita come: “la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne”. La violenza alle donne solo da pochi anni è diventato tema e dibattito pubblico, mancano politiche in contrasto alla violenza alle donne, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione. Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali, e a tutti i ceti economici. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita. E il rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici: vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro o di studio. Esistono diverse forme di violenza: la violenza domestica esercitata soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atteggiamenti persecutori, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, uxoricidi passionali o premeditati. I bambini, gli adolescenti, ma in primo luogo le bambine e le ragazze adolescenti sono sottoposte all’incesto. Le donne sono esposte nei luoghi pubblici e sul posto di lavoro a molestie ed abusi sessuali, a stupri e a ricatti sessuali. In particolare verso le lesbiche vengono praticati i cosiddetti “stupri correttivi”. In molti paesi le ragazze giovani sono vittime di matrimoni coatti matrimoni riparatori e/o costrette alla schiavitù sessuale mentre altre vengono indotte alla prostituzione forzata e/o sono vittime di tratta. Altre forme di violenza sono le mutilazioni genitali femminili o altri tipi di mutilazioni come in un recente passato le fasciature dei piedi, lo stiramento del seno, le cosiddette “dowry death” (morte a causa della dote), l’uso dell’acido per sfigurare, lo stupro di guerra ed etnico.

Va citato il femminicidio che in alcuni paesi, come in India e in Cina, si concretizza nell’aborto selettivo (le donne vengono indotte a partorire solo figli maschi, perché più riconosciuti e accettati socialmente) mentre in altri addirittura nell’uccisione sistematica di donne adulte. Esistono infine violenze relative alla riproduzione (aborto forzato, sterilizzazione forzata, contraccezione negata gravidanza forzata)[2].

Esiste, dunque, un’asimmetria di potere tra i sessi rafforzata dagli stereotipi che relegano la donna quasi esclusivamente ad un ruolo tradizionale di cura e di sostegno non solo per le diverse figure maschili, ma anche per tutto ciò che ruota intorno al nucleo familiare, caricando la donna del cosiddetto lavoro di cura. E’ una violenza dai contorni sfumati che inizia sin dalla tenera età, quando si costruiscono modelli femminili e maschili che prevedono una divisione dei ruoli così come la società li ha sempre concepiti. La violenza di genere oggi emerge più che mai a causa di due fattori principali: 1) la diminuzione del silenzio e della paura delle donne che riescono a trovare un sostegno nei centri antiviolenza; 2) l’aumento dei casi di femminicidio[3] e violenza che conseguono al vuoto d’identità creato dalle trasformazioni sociali che non relegano più la donna ad “angelo del focolare”. Se il patriarcato (agli uomini sfugge il controllo della relazione e non esercitano più l’autorità tradizionale) e la rottura dei modelli tradizionali di genere sono stati sufficienti finora a spiegare la violenza di genere, oggi bisogna intersecare altre direttrici che possano fornire una visione più ampia del fenomeno. E’ necessaria una lettura strutturale e sistemica della violenza, guardando al modello tradizionale di mascolinità costruito intorno a concetti di potere, lavoro, successo economico, omofobia. Questo modello chiarisce i casi violenza in maniera longitudinale, superando la separazione dei contesti sociali e storicamente differenti e spiega la durata del modello egemonico di mascolinità. Tuttavia, in virtù di una visione olistica del fenomeno, è fondamentale guardare alla costruzione delle soggettività come punto fondamentale di partenza ovvero, come uomini e donne si costruiscono come soggetti gendered? Come le pratiche discorsive e sociali riescono a riprodurre modelli dominanti definendo i ruoli di genere? Alcuni studi socio-antropologici vedono le moderne violenze di genere non come una rottura dell’ordine sociale, ma come una lotta per il mantenimento di alcune fantasie e identità di potere. Più la donna tenta di conquistare autonomia, più c’è una recrudescenza della violenza. Discorsi e pratiche discorsive in contraddizione tra loro in una stessa cultura che vedono l’uomo e la donna in forma dicotomica e allo stesso tempo concepiscono il genere processualmente.

In un contesto sociale, dove i discorsi dominanti sul genere costruiscono le categorie di uomo e di donna come esclusive e gerarchicamente ordinate, la rappresentazione della violenza è essa stessa altamente sessualizzata e inseparabile dalla nozione di genere. Il genere, le fantasie di potere e di identità contribuiscono a generare discorsi sulla formazione delle soggettività.

In conclusione, diversi fattori socio-economici e culturali contribuiscono a spiegarci nascita ed evoluzione di queste forme di violenza che, purtroppo, speso coinvolgono anche i minori sottoposti ad assistere a scene cruente e traumatizzanti (la cosiddetta violenza assistita). La ricerca femminista aveva studiato e sottolineato la violenza sulle donne che emerge nelle relazioni intime, svelando come terminologie come “violenza in famiglia”, “abuso coniugale” nascondano l’aspetto di rapporto di genere, ovvero la direzione sessuata della violenza, richiamando un concetto neutro, simmetrico di violenza (tra coniugi). Si tratta, invece, di violenze di “uomini” contro le “donne”. Esistono tre tipi di violenza perpetrata in particolare nell’ambiente domestico:

  1. quella fisica, in scala graduata (minaccia di essere colpita fisicamente, essere spinta, afferrata o strattonata, essere colpita con un oggetto, schiaffeggiata, presa a calci o a morsi, tentativi di strangolamento, soffocamento, ustione, minaccia con armi);
  2. quella sessuale, dove la donna è costretta a fare/subire contro volontà atti sessuali di diverso tipo (da baci/carezze imposti, palpeggiamenti, esibizionismo allo stupro, tentato stupro, rapporti sessuali con terzi, ecc.);
  3. quella psicologica, con forme di denigrazione, intimidazioni, controllo dei comportamenti, forti limitazioni economiche da parte del partner.

A contrasto di questa violenza nascono i primi “telefoni rosa” a Londra nel 1971. In Italia i primi centri antiviolenza sono nati a fine anni ’90. I Centri antiviolenza in Italia si sono riuniti nella Rete nazionale dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne. Nel 2008 è nata una federazione nazionale che riunisce 65 Centri antiviolenza in tutta Italia dal nome “D.i.Re: Donne in Rete contro la violenza alle donne”. Ma è chiaro che ciò non è sufficiente. E’ necessario trasformare soggetti passivi e deresponsabilizzati in soggetti attivi e agire sulla dimensione della costruzione sociale della violenza all’interno delle tecniche di riproduzione culturale.

La violenza di genere è considerata violazione dei diritti dell’umanità:

“diritti delle donne sono una responsabilità di tutto il genere umano; lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità; il rafforzamento del potere di azione delle donne significa il progresso di tutta l’umanità.” (Kofi Annan)

La violenza di genere, dunque, è strettamente collegata alle differenze tra sessi come prodotto di una creazione culturale. La prima teoria sociale che ha messo in discussione non solo da un punto di vista concettuale la distinzione sesso/genere è la teoria queer, emersa negli anni ’90, che mira a decostruire le strutture binarie di cui parlavamo all’inizio di questo articolo e a sostituire il concetto di identità con una “visione affermativa delle differenze”. In particolare, la teoria queer rigetta la creazione di categorie ed entità-gruppo artificiali e socialmente assegnate basate sulla divisione tra coloro che condividono un’usanza, abitudine o stile di vita e coloro che non lo condividono[4].

Il carattere del profondo radicamento degli stereotipi di genere, lo dimostrano alcuni fatti di cronaca: dai più efferati femminicidi alle vergognose difese dell’opinione pubblica nei confronti degli assassini o degli stupratori. Raccapricciante, ad esempio, è stata la reazione di un paese intero, Melito Porto Salvo in provincia di Reggio Calabria, quando in risposta alla violenza sessuale di gruppo aggravata perpetrata ai danni di una ragazzina per tre anni da parte, la maggioranza dei cittadini ha parlato di “prostituzione” o ha esordito con affermazioni del tipo “se l’è andata a cercare” come se questo legittimasse la violenza. Nei dettagli, una testata giornalistica così scrive: Ragazzina violentata per anni dal branco: “Se l’è andata a cercare”. La bambina, vittima di una violenza di gruppo durata tre anni, è stata abbandonata dal suo paese: “Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione” (Marta Proietti – Dom, 11/09/2016 – 12:46). Nella fiaccolata organizzata per lei davanti alla stazione del suo paese, Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, ci sono pochissime persone: appena quattrocento su 14 mila residenti. È quello che ha visto e documentato Niccolò Zancan, inviato de La Stampa. Pochi giorni fa era arrivata la notizia dell’arresto di nove persone accusate, a vario titolo, di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione dimateriale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale. Tra gli accusati anche un ragazzo minorenne e Giovanni Iamonte, figlio del boss della ‘ndrangheta Remigio Iamonte. Quando gli stupri di gruppo sono iniziati la bambina aveva solo 13 anni. Il branco ha continuato ad abusare di lei per tre anni. Andavano a prenderla all’uscita della scuola media Corrado Alvaro. L’istituto si trova sulla via principale del paese, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo. Qui la ragazzina veniva violentata.Poco dopo l’arresto, il procuratore capo di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho ha detto: “Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano”. Tutti sapevano e nessuno ha denunciato. Non solo: il paese addossa le colpe delle violenze sulla ragazza: “Se l’è cercata”, oppure “Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione” e ancora “Sapevamo che era una ragazza movimentata, una che non sa stare al suo posto”. Anche il parroco Benvenuto Malara: “Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese”.[5]

 Sonia Angelisi, sociologa ASI

[1] “Il libro della sociologia” Gribaudo, 2016.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Violenza_contro_le_donne

[3] Femminicidio è il termine usato da Barbara Spinelli, mutuato dall’antropologa messicana Lagarde, per indicare la violenza sistemica e strutturale a cui sono sottoposte le donne nell’asimmetrico contesto di potere e di vita, una violenza che lede quotidianamente i corpi delle donne, ne nega i diritti fino ad arrivare ai casi estremi di stupro e omicidio.

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_queer

[5] http://www.ilgiornale.it/news/cronache/reggio-calabria-ragazzina-violentata-anni-nove-persone-se-l-1305356.html


Lascia un commento

Anti - Spam *

Cerca

Archivio