Recensione a: Raffasofia. Per trovare la felicità-tà-tà

Raffaella Carrà è stata per oltre trent’anni una star del piccolo schermo. Ballerina, cantante e conduttrice di successo ha rappresentato uno dei volti più popolari della Tv italiana. Nel corso della sua lunga carriera ha lavorato all’estero, venduto 60 milioni di dischi in tutto il mondo, ricevuto premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. All’artista, scomparsa nel 2021, la scrittrice Marina Visentin ha dedicato un libro agiografico che si ben si presta alla critica sociologica dei miti prodotti dall’industria culturale.

Per quanto Raffasofia si presenti sulle ali della leggerezza avanza pretese filosofiche. Ma non è un libro di filosofia divulgativa. Di quelli annoverabili nella cultura media così tanto disprezzata da Dwight McDonald e rivalutata da Umberto Eco. Raffasofia si colloca su un piano differente perché il suo lettore ideale non è l’agente di borsa che legge Hemingway, ma un pubblico sempre più educato allo schermo e dallo schermo. Un pubblico che alla pagina scritta chiede le stesse performance offerte dalle immagini in movimento: rapidità, cambiamento, sorpresa.

In coerenza con questo tipo di orientamento (cognitivo e contenutistico) Visentin ha organizzato la stesura di Raffasofia su tre piani interagenti: la personale filosofia di vita espressa dalla Carrà in numerose interviste; i testi delle sue canzoni; un pot-pourri di citazioni: scrittori, filosofi, religiosi e politici sono chiamati a raccolta per sostenere la visione del mondo della showgirl. Una macedonia di frasi celebri in cui il lettore può trovare di tutto: Aristotele e Nietzsche, Churchill e Che Guevara, Sant’Agostino e Confucio, Beckett e Bernanos, Alda Merini e Anaïs Nin e così via. Simili frullati di pillole di saggezza sono utilizzati anche nei manuali di auto-aiuto e di marketing. Servono a nobilitare il proprio discorso anche se il pensiero degli autori citati è travisato, così come accade alla Visentin quando associa il dibattito sulla felicità degli antichi filosofi greci al self-improvement di oggi.

Ma qui non si tratta di fare le pulci al testo. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Conviene invece chiedersi: qual è stato l’effetto-Carrà sulla coscienza collettiva degli italiani? Dalla lettura di Raffasofia risulta chiaro: un effetto potente. E l’operazione della Visentin è proprio quella di alimentare tale potenza mitizzando un personaggio dello spettacolo in grado di offrire un’etica e un’idea di felicità a un pubblico che apprezza l’intrattenimento su ogni strumento di comunicazione adottando contenuti facilmente digeribili. Un pubblico che anche con la lettura vuol passare il tempo economizzando energie mentali, che si nutre di pseudo-cultura e che non intende rinunciare al buonumore. Un pubblico allo stesso tempo anti-brechtiano e postmoderno.

A questo pubblico la Carrà offre un’idea di felicità condensabile in una parola: spensieratezza. E come ci si scrollano di dosso i pensieri? Ballando a perdifiato, gettando alle ortiche i falsi pudori, sorridendo alla vita. Ma la spensieratezza è un po’ come la bellezza: richiede impegno, costanza e fatica. Tra le righe di Raffasofia fa così capolino l’attaccamento della Carrà all’etica del lavoro, probabilmente appresa dai genitori, entrambi imprenditori. Un’etica che sovrasta ogni aspetto della vita e che, tra l’altro, condurrà la showgirl a rinunciare alla maternità. Visentin sottolinea spesso l’energia della Carrà e la sua capacità di adattarsi al nuovo. Per esempio, passando indifferentemente da un ruolo all’altro. Abbiamo ricordato che Raffaella Carrà è stata ballerina, cantante, conduttrice (all’inizio della carriera anche attrice cinematografica). Senza nulla togliere alle sue qualità artistiche, non eccelse in nessuno di questi ruoli. Fu la sua fortuna perché le consentì un successo duraturo all’insegna della medietà. E questo stare nel mezzo è la chiave di volta per comprendere la filosofia di vita della Carrà.

Naturalmente per Visentin le cose non stanno così. La Carrà è presentata come una rivoluzionaria, una donna libera da pregiudizi e indipendente nelle faccende di cuore. Lettura che isola il fenomeno-Carrà dal resto della vita sociale. Prendiamo il ruolo di sex symbol attribuito alla showgirl quando nel 1970 buca lo schermo della Tv in bianco e nero mostrando per prima l’ombelico davanti alle telecamere. Al netto dello scandalo, era quello che si aspettava il pubblico di una società industriale ancora sospinta dal boom economico e alla quale i valori e i pudori del mondo rurale andavano stretti. È questo uno degli equivoci di Raffasofia: presentare la Carrà come una contestatrice quando in realtà il suo agire è sempre andato in direzione della stabilità pur nel cambiamento, dei costumi beninteso. Tanto è così che pur cantando l’autonomia delle donne restò estranea ai movimenti femministi perché riteneva la libertà una questione interiore dell’individuo e non un tema sociale.

Raffaella Carrà ha rappresentato i valori di un ceto medio in ascesa e da cui proveniva. Un ceto orgogliosamente dedito alla propria attività professionale, a cui piace godersi la vita e che non vuole scossoni sociali. Ecco la ricetta della felicità. Ricetta politicamente moderata a cui corrisponde il glamour della donna perbene ma al passo coi tempi, il glamour incarnato dalla Raffa nazionale: una bellezza non esagerata, un sex appeal non debordante, un’emancipazione non sovversiva. Ossia il contrario di ciò che racconta Visentin. Perché così tanto contenimento? Perché questo tipo di donna ha tutto ciò che è essenziale: lavoro, denaro, prestigio. Le sue ansie riguardano le pene del cuore e i suoi problemi la sfera del tempo libero. Sono questi gli ostacoli alla gioia di vivere.

Il glamour conformista a uso e consumo del ceto medio in ascesa inizia a scricchiolare con l’affermazione della Tv commerciale fino a crollare col consolidamento del duopolio Rai-Mediaset. Fenomeno parallelo alla lenta discesa di un ceto-medio sempre più esposto ai venti delle crisi economiche. Ed ecco affermarsi, dentro e fuori gli schermi, un nuovo modello di glamour: erotizzato al massimo, esibizionista, spesso volgare. L’ombelico scoperto della Carrà fa sorridere e la sua medietà un ricordo del passato. Il disorientato ceto medio di una società deindustrializzata chiede ben altro: una felicità da rivoluzione passiva, in amore come in politica.

PATRIZIO PAOLINELLI, La Critica sociologica, LVI – 222, aprile 2022


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