Il futuro del lavoro secondo Wired

di Patrizio Paolinelli

Prof. Patrizio Paolinelli

L’edizione di primavera della rivista Wired è interamente dedicata al lavoro. Due parole sul magazine. Nasce nel 1993 a San Francisco su iniziativa del giornalista Luc Rossetto e dello studioso di cultura digitale Kevin Kelly. In quest’avventura vennero sostenuti dal tecno-divulgatore Nicholas Negroponte, che fu editorialista fisso della rivista fino al 1998. Wired si occupa delle nuove tecnologie, è molto popolare e si rivolge in particolare ai giovani, è scritta con un linguaggio comprensibile anche ai non specialisti e affronta l’impatto delle tecnologie digitali sulla società. L’Italia ha il privilegio di ospitare una delle due versioni internazionali di Wired, l’altra è quella inglese. La rivista è vicina al Partito Democratico statunitense.

Date queste credenziali è utile capire come il magazine valuta le conseguenze dell’hi-tech sul mondo del lavoro. La domanda di fondo a cui cercano di rispondere gli autori di questo numero della rivista è: le applicazioni dell’informatica espandono o contraggono l’occupazione? Ovviamente la complessità del problema impedisce di rispondere con un sì o con un no. Tant’è che il magazine è diviso in tre sezioni ricalcate dalle tre cantiche della Divina Commedia: inferno, purgatorio, paradiso. Nella prima si fa il punto della situazione sulle professioni che rischiano l’estinzione o che non soddisfano economicamente; nella seconda su quelle che si trovano in mezzo al guado della transizione digitale e sono soggette a profonde trasformazioni; nella terza ecco finalmente apparire la luce grazie alle nuove opportunità occupazionali offerte dall’economia digitale. Ogni cantica di Wired è preceduta da dati quantitativi, ricavati da fonti quali McKinsey, Ocse, Eurostat e così via. Ai numeri e alle percentuali fanno seguito una serie gli articoli focalizzati su specifiche attività interessate dall’impatto del digitale: dall’operatore di call center ai robot che coadiuvano camerieri e cuochi, dalla professione di stuntman a quella di giornalista, all’operaio aumentato e altre ancora.  

All’inferno si trovano i lavori manuali. Secondo alcune previsioni pare che in Italia da qui al 2030 assisteremo a drastici crolli dell’occupazione nelle attività estrattive (-24,3%), nell’agricoltura e pesca (-19,5%), nella gestione dei rifiuti (-17,2%). Per quanto concerne le attività scarsamente retribuite gli occupati nella gig economy (economia dei lavoretti), sempre nel nostro Paese, sono 589.039 (l’1,59% della popolazione attiva, 18-64 anni). A sorpresa all’inferno troviamo finalmente ospitati una platea di operatori del digitale impropriamente considerati, come i gig worker, lavoratori autonomi. Si tratta invece di lavoratori a chiamata o sottoposti a contratti capestro, che in genere guadagnano poco e spesso operano in nero. Di solito tali lavoratori sono chiamati freelance. Un modo elegante per evitare di dire quanto poco elegantemente stanno le cose, e cioè che sono precari a cui è negato ogni diritto. Precari che nella data-economy non sono solo i ciclo-fattorini (i cosiddetti riders), ma anche le migliaia di lavoratori invisibili che da dietro le quinte aggiornano gli algoritmi in modo da fornire servizi intelligenti agli utenti del Web. Wired non lo dice apertamente, ma non ci vuole molto a capire che gig economy è l’ennesimo anglicismo che serve a camuffare la realtà, in questo caso la realtà del lavoro para-schiavista. Come se non bastasse anche l’occupazione regolare conosce sostanziosi arretramenti. In Italia, tra salariati e stipendiati, il 12% dei dipendenti si trova in condizione di povertà, mentre la media europea è del 9,5%.

Passiamo al purgatorio. Qui troviamo una gran quantità di lavoratori destinati a precipitare all’inferno più che ad ascendere in paradiso. A causa dell’innovazione tecnologica nel 2030 si stima che a livello mondiale saranno tra i 400 e gli 800 milioni le persone che resteranno disoccupate. Forse allarmata dall’enormità della cifra Wired offre subito due soluzioni: la formazione e i lavori di tipo domestico. Con la prima soluzione entro il 2030 si potrebbero creare dai 75 ai 375 milioni di nuovi posti di lavoro. Un ventaglio talmente largo da far dubitare sulle possibilità della formazione di recuperare la maggior parte dei posti di lavoro perduti.  Mentre con la seconda soluzione i posti di lavoro ipotizzati sarebbero da 50 a 90 milioni e riguarderebbero attività quali le pulizie, il giardinaggio, il baby-sitting, la preparazione dei pasti e l’educazione della prima infanzia. Insieme di attività chiamate col solito anglicismo di care giving, ma che sarebbe assai più appropriato definire come lavori servili, e in quanto tali scarsamente retribuiti. Se a puro titolo di esercizio mentale si prendono in considerazione le cifre più alte presentate da Wired nel 2030 resterebbero senza lavoro 335 milioni di persone. Come sopravviveranno? Un bel problema, perché in qualche maniera dovranno pur sopravvivere. Con tutta probabilità andranno a alimentare il lavoro nero, il sommerso, o tireranno avanti con traffici illeciti, sussidi di povertà e quant’altro.

In paradiso si trovano i vincenti inseriti nell’economia digitale. Lì per lì i dati sembrano confortare. Infatti, a livello mondiale nel 2030 l’8,9% degli occupati svolgerà una professione che oggi non esiste e in Italia, entro la stessa data, si assisterà a un aumento dei posti di lavoro nei servizi amministrativi (+26,5%), nell’assistenza sanitaria e sociale (+23,7%), nel mondo delle professioni (+22,2%). Ma quando si entra nello specifico gli entusiasmi si raffreddano. Per esempio, quest’anno, sempre sul piano globale, l’intelligenza artificiale creerà 2,3 milioni di posti di lavoro cancellandone contemporaneamente 1,8 con un saldo attivo di appena 500mila nuovi posti di lavoro. Sinceramente rammaricati dobbiamo dire che questa cantica di Wired è quella più debole. Nel paradiso della tecnologia si può infatti restare a bocca aperta dinanzi alle fabbriche intelligenti in cui i robot collaborano con gli operai, oppure se si mette piede nella fiorente industria dei videogiochi, o quando si incontrano gli angeli del fare, i cosiddetti maker, tecno-artigiani che inventano nuovi mirabolanti prodotti hi-tech. Finita la sorpresa resta la dura realtà: questi e altri settori tecnologicamente avanzati non saranno in grado di assorbire che in minima parte la forza-lavoro espulsa dai comparti produttivi tradizionali. Non solo. L’accelerazione tecnologica lascia prevedere che anche attività oggi considerate all’avanguardia potrebbero prima o poi essere sostituite da macchine grazie ai processi di autoapprendimento dell’intelligenza artificiale (Machine Learning).

E allora al paradiso di Wired non resta che affidarsi a due speranze. La prima, secondo la quale una maggiore produttività delle aziende potrebbe creare i presupposti per nuovi business e dunque per nuova occupazione. Pia speranza visti i magri risultati fin qui ottenuti. Ovviamente risultati magri per una larga fascia di lavoratori o aspiranti tali. Per una élite di imprenditori, di manager e una minoranza di professionisti l’economia digitale ha invece rappresentato un tempo di vacche grasse, anzi grassissime. La seconda speranza punta sull’avvento di un capitalismo dal volto umano che permetta l’introduzione di un reddito di base incondizionato dando così il via alla società del post-lavoro. Speranza ancora più pia della precedente data la natura predatoria del capitalismo reale, peraltro ampiamente confermata nella sua attuale versione digitale. Ciò non significa chiudere gli occhi dinanzi alle profonde trasformazioni del potere economico. Il quale, sia che riguardi la new economy sia che riguardi la old economy, si sta sempre più configurando come un regime di monopoli con tratti che ricordano l’antica nobiltà feudale.

Ma torniamo al nostro argomento. Nonostante sul futuro dell’occupazione si versino e si continueranno a versare fiumi di inchiostro ci pare di poter dire che allo stato attuale delle cose il bilancio volge al negativo. Lo stesso susseguirsi di docce calde e fredde nell’indagine di Wired ci sembra confermarlo. E se ci sarà un’inversione di tendenza non sarà certo la tecnologia a deciderlo ma la politica, come del resto è avvenuto con le altre rivoluzioni industriali. Tuttavia una lancia a favore della rivista va spezzata.

Già il fatto che non si spertichi a osannare l’automazione trascurando le contraddizioni che produce è un notevole passo in avanti rispetto a certa pubblicistica manageriale che invece ancora le ignora in nome di un darwinismo sociale di antica memoria. Certo Wired non può tradire la sua missione: che è quella di infondere fiducia nelle tecnologie digitali tra i suoi lettori. E dobbiamo dire che ci prova con tutte le proprie forze. Nel numero qui considerato non mancano articoli di blasonati prof ed esperti che si esprimono in positivo sulle conseguenze sociali dell’innovazione tecnologica. Ma, sia detto con tutto il rispetto, sono pezzi assai deludenti. Non si va più in là del catechismo tecno-ottimista che imperversa sui media, di qualche percentuale a effetto gettata lì per impressionare il lettore, di comparazioni storiche che meriterebbero molta più indagine, cautela e riflessione. Per esempio, paragonare l’attuale rivoluzione industriale con le precedenti è sbagliato perché ben altro è il contesto sociale e geopolitico e perché la storia non si ripete mai nella stessa maniera. Allora non ci resta che attendere. Attendere che Wired faccia un altro passo avanti e per il bene della tecnologia inizi a porsi criticamente domande di questo tipo: il digitale sta davvero facendo avanzare l’umanità? Coi computer la qualità della vita è migliorata? Basta inventare nuove macchine per dire che la società sta progredendo?

Patrizio Paolinelli, Via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 15 luglio 2020.


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