Hikikomori  nel contesto ipermedializzato: uno sguardo sociologico

 

GIacomo Buoncompagni 3I social network sempre più sostituiscono i rapporti veri con gli amici o con la famiglia e finiscono per raccogliere il disagio, anche quello più profondo. Perché “condividere” il dolore fa stare meglio. Tale Sindrome è uno degli effetti della dipendenza da internet dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni. Un fenomeno che sta pericolosamente riguardando sempre di più anche l’Italia, dove 240mila ragazzini e adolescenti passano in media più di 3 ore al giorno davanti al pc. Una vera e propria web-dipendenza che porta a una sorta di isolamento sociale, che sembrava fino a poco tempo fa riguardare esclusivamente il Giappone e per questo denominata “sindrome di Hikomori”. I primi casi italiani, sporadici e isolati, sono stati diagnosticati nel 2007, e da allora il fenomeno ha continuato a crescere e, seppure con numeri diversi da quelli giapponesi, a diffondersi.

 tumblr_inline_nuvxls9ami1stoloe_540 (1)Ad oggi non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono “ritirati”, le stime parlano di 20/30 mila casi, ma il fenomeno potrebbe essere più ampio. In Francia se ne contano quasi 80 mila, mentre in Giappone, dove il fenomeno è quasi endemico, si parla di cifre che oscillano tra i 500 mila e il milione di casi”.
Le scienze comportamentali spiegano a tal riguardo, la presenza di comportamenti ben precisi nel giovane Hikikomori:  crisi di pianto, incapacità di relazione, continue lamentazioni su di sé e, nella sua sofferenza, c’è una forte componente di senso di colpa. Il sentimento prevalente è la vergogna. Si vive come un fallimento la distanza tra il mondo che si è immaginato e previsto per sé e quella che invece  è la realtà: tanto più grande è la distanza tra la realtà che si era idealizzata e quella vera, tanto più grande sarà la vergogna che si prova.La scelta di conseguenza cade sull’auto-reclusione in un universo minimo e virtuale, scegliendo cosi di giocare con identità multiple ,creandosi percorsi sociali all’interno dei social o dei videogiochi, annullandosi completamente come esseri umani e lasciandosi passivamente trascinare all’interno dello schermo.
Gli Hikikomori hanno una forte avversione per tutti i tipi di attività sociali, dall’uscire con i coetanei alla pratica di sport di gruppo, e, soprattutto, un’accentuata fobia scolare, non necessariamente motivata da brutti voti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto e della competizione.Questo disagio cosi forte ha portato molti ragazzi ha praticare quello che è stato definito “cutting”o autolesionismo, atto che consiste nel tagliarsi con oggetti appuntiti come coltelli, lamette, pezzi di vetro; un fenomeno chiaramente preoccupante, ma che va interpretato prima di tutto come “un grido di aiuto” da parte di molti adolescenti.Per  la psicologa sociale Alessandra Lemma, la pelle viene adoperata come superficie d’iscrizione, su cui la sofferenza psichica viene esteriorizzata e lavorata.Il corpo è l’interfaccia tra l’individuale ed il sociale. Dall’origine della vita infatti,  la superficie della pelle svolge molteplici funzioni nello sviluppo della personalità e del contatto fisico e emotivo. La percezione del corpo è una costruzione intersoggettiva, interpersonale e sociale. In adolescenza le trasformazioni psichiche e somatiche contribuiscono a determinare la riorganizzazione delle rappresentazioni di sé.A saziare le esigenze di chi si taglia fuori dal mondo esterno, si è pensato, per molto tempo ,fosse la Rete, in quanto capace (apparentemente) di fornire risposte e aiutare a costruire legami senza troppi pericoli e senza mettere in gioco il corpo. E proprio Internet è al centro di un’ampia discussione nella quale ci si chiede se il rapporto parossistico tra Hikikomori e web sia la causa o l’effetto della malattia.In merito prevalgono due teorie: secondo la prima gli Hikikomori nascono per colpa della rete, che con le sue mille attrattive ti tira dentro e ti allontana dal mondo. La seconda invece, antropologicamente più credibile,  sostiene che i ragazzi stanno male comunque, perché non reggono il peso del confronto e della continua aspettativa che arriva dalla cultura contemporanea;  il concetto di Rete come ambiente curativo, bellissimo dove andare, potenzialmente infinito e pieno di stimoli, in cui crearsi una vita fuori dalla vita, escludendo cosi il concetto di “ambiente pubblico”, di privacy e relazione, convinti di entrare in una realtà parallela completamente slegata dal sociale, è un’idea chiaramente distorta e pericolosa.

hikokimoriVa tenuto presente infatti, che il cyberspace non ha niente a che vedere con lo spazio fisico, è uno “spazio non spazio”, che non può permettere una fuga o un cambiamento completo della nostra quotidianità. Lo schermo diventa a quel punto il centro operativo di tutto, quella barriera emotiva-relazionale che rende tutto più freddo, vuoto, illusorio, inesistente, in grado di svuotare lo stesso concetto, cosi profondo, di empatia.La nostra percezione della realtà riguarda tutto il corpo e tutti i nostri sensi che si trasformano in “estensioni tecnologiche” legate non al mio punto di vista ma al mio “punto di stato”: il mio immaginario da soggettivo diventa oggettivo , parte quindi di una realtà nuova e pubblica , costituita da nuove e ricche identità interconnesse che gestiscono continui flussi comunicativi. Proprio questa è la forza delle nuove tecnologie e cioè l’interattività che , come afferma il sociologo De Kerckhove, “stabiliscono scambi continui ed intimi di energia tra mente, corpo ed ambiente globale”.

La conseguenza sta nel fatto che i nuovi media sono divenuti ambienti intermedi, che hanno accesso alla   nostra psiche privata e fanno da ponte con il mondo esterno, annullando il senso delle frontiere geografiche e i confini tra identità locali e globali. Siamo individui interconnessi e visibili che tentano ,attraverso la tecnologia, di “eternizzarsi” e di rendersi unici e perfetti, protagonisti in Rete , produttori e consumatori di contenuti mediali , raccontando e raccontandosi, “esponendosi” come merce dietro ad  uno schermo.L’uomo e il mondo stanno attraversando un profondo mutamento in seguito allo sviluppo delle nuove tecnologie a volte utili, incontrollabili, demonizzate e divinizzate, in grado di condurci alla totale frammentazione o ad una nuova globalizzazione. Combattere il disagio giovanile ed un uso del web irresponsabile ed improvvisato, significa prima di tutto far comprendere come  la vita vada costruita, vissuta ed  affrontata, no personalizzata e controllata,  in quanto è una “strada” che merita di essere percorsa, ma la salita può diventare meno faticosa attraverso un maggiore coinvolgimento di educatori, genitori, professionisti del web, affinché diventino “artigiani dell’ascolto e della comunicazione”, come ha affermato la filosofa Corradi Fiumara.Sono proprio questi , i due strumenti  che, secondo lo psicologo sociale Goleman, “costituiranno la colonna, il trampolino per un’applicazione effettiva di un’educazione prima di tutto emotiva”.

Giacomo Buoncompagni

Dottore in comunicazione , specializzato in comunicazione pubblica e scienze socio-criminologiche . Ha conseguito diplomi di master universitari di secondo livello in ambito criminologico-forense. Esperto in comunicazione strategica e linguaggio non verbale. Cultore della materia e Collaboratore di Cattedra  in “Sociologia generale e della devianza“ e “Comunicazione e nuovi media”presso l’Università di Macerata. E’Presidente provinciale dell’associazione Aiart di Macerata e autore del libro “Comunicazione Criminologica”e “Analisi comunicazionale forense”( Gruppo editoriale l’Espresso ,2017).  giacomo.buoncompagni@libero.it


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