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ISLAM, CATTOLICESIMO, SIMBOLOGIE E FALSA COSCIENZA

 

Fulvio D'Ascola  1.4.2017Il viaggio è sempre un continuo divenire, scoprendo luoghi, persone ,usi e tradizioni ,diverse e lontane dal luogo delle proprie radici . Le religioni, caratteri fondanti della società, sono la  sovrastruttura ideologica che attraverso regole, codici e metodologie ,tengono uniti i creando micro società di fedeli e moltitudini di popoli devoti. Simbologie , ma anche falsa coscienza ,nel diffondere un’ideologie travestita dalla sacralità ,che controlla l’azione personale entro i canoni di quello che è giusto o sbagliato, tra quello che è peccato o verità del Corano. Tanti volti diversificati di una stessa faccia, un Dio che si modella attraverso la mediazione di figure fisiche che codificano un dogma, una fede che vola in alto sulla mente degli adepti. Islam ,Cattolicesimo ,Ebraismo, Buddismo ,caratterizzati dai luoghi di origine ,con i secoli che attraversano sconvolgimenti sociali ed economici , con le migrazioni interne ed esterne che creano nuove sacche culturali, dove si scontrano usi e costumi. Le cronache dei mass media , sono spesso popolate da immagini e notizie di azioni repressive in nome della religione , tutto questo accade spesso dove manca l’azione innescata della cultura. Mutilazioni genitali femminili nelle tribù africane, capelli rasati se si rifiuta di indossare il Burka tra gli islamici, l’Europa e l’Italia si compongono con i binari paralleli di immigrati e originari natii .Genitori e figli che vivono in un nuovo ambiente, con i retaggi culturali che si scontrano, tra le new generation digitali e bambini divenuti adolescenti, che dai piccoli villaggi si catapultano in città ,dove i ritmi veloci e la corsa all’apparenza diviene fondante nel vissuto giovanile. Il rifiuto a un padre padrone, detentore del potere decisionale, genera punizione fisica e morale, fino ad arrivare al gesto estremo della morte, se non si ubbidisce ai suoi ordini.20160823_152642 (1)

Cultura frammentata , di piccole storie che diventano grandi ed esplodono mediate dal web e dalla televisione. Tante verità nascoste, di violenza e disagi, di sottomissioni fisiche e psicologiche, perché lo scontro ideologico e tradizionale è latente nei nostri giorni. La falsa coscienza di un potere simbolico fondante nel nome di una idea religiosa, tiene unita il gruppo che “crede”, mentre tante piccole personalità con le loro emozioni e sentimenti   , si reprimono in nome di una regola scritta e non scritta ,fondata sulla paura del peccato o sulla bellezza del sacrificio personale . Il tempo corre veloce, ma sembra immobile dentro agli steccati ideologici, tra Islam ,Ebraismo ,Cattolicesimo ,simbolismo e falsa coscienza.

Fulvio  D’Ascola ,  portavoce nazionale ASI – Associazione Sociologi Italiani


FIERA DI SAN GIUSEPPE, INCROCIO DI CULTURE

Fiara di san Giuseppe CosenzaEventi fieristici, kermesse di ogni genere,  tradizioni e profumi calabresi hanno fatto da sfondo alla festività di San Giuseppe, che è il santo patrono del centro storico cosentino. La fiera ha origini storiche, sin dal 1848 si parla di kermesse fieristica, ed in occasione del culto di San Gaetano,  si scelse di abbinare all’evento religioso un momento di festa popolare: le bancarelle con prodotti agroalimentari, oggetti in terracotta, piante, casalinghi hanno fatto la storia della fiera più nota d’Italia.Dal punto di vista sociologico è un crogiolo di culture, di topoi e di antiche tradizioni, tanto da ospitare stranieri, gente che viene da ogni parte di Italia, ed in concomitanza alla sopracitata “Fiera di San Giuseppe” si apprestano a vendere i loro prodotti, così che possano trarne vantaggio. Abbiamo più appuntamenti fieristici nel periodo di San Giuseppe, tra cui la Spezia, Lizzano( Ta)  Agira (En) Giurdignano ( Lecce) . Anche in Emilia Romagna vi è la Fochereccia di Gemmano e quella di Poggio Tarriana, in cui si accendono dei grandi focolari per Fiera di San bruciare cose vecchie ( tradizione di capodanno in alcuni paesini).Da non dimenticare la Fiera di San Giuseppe a Correggio e la Fiera artigianale di Scandiano, sempre in Emilia Romagna, così come i suggestivi Fucarazz di Castelluccio Inferiore e i falò a Ruvo del Monte, in provincia di Potenza, oppure la nota festa a Scicli, in  Sicilia: un insieme di persone e culture, capaci di restituire alla gente del posto tanta allegria, musica , folclore e vendita immediata sul posto.

A Cosenza, invece, in questo 2017 la linea comunicativa ha dato spazio alla trasmissione “Parola di Pollice verde”, condotta da Luca Sardella in onda sul canale nazionale rete 4, con l’intento di poter diffondere un servizio di promozione ed informazione del territorio, sia dal punto di vista culturale che enogastronomico: una scelta che ha diviso l’opinione pubblica, in quanto da una parte qualcuno ha parlato di spese pazze, dall’altra ha permesso di favorire la conoscenza della nostra città, un modo per dimostrare in diretta la bellezza della città di Cosenza, rivisitata nei suoi luoghi, bellezze naturali, nel suo cibo, ed in particolare la zeppola di san Giuseppe è stata anche oggetto del contest Facebook: scegliere la migliore zeppola è un’impresa per pochi.Anche la fiera è divenuta un evento social, dove si sono radunate più realtà e situazioni, lasciando spazio alle novità dell’anno, da ricercare tra i prodotti esposti,oppure la buona musica, gli appuntamenti con i laboratori tematici, l’aspetto enogastronomico,  elementi che hanno permesso la realizzazione di una ricorrenza all’avanguardia.Le tradizioni popolari ricordano l’incrocio tra culture, popoli prettamente diversi, una vera crescita culturale per tutti quelli che immaginano questi eventi come occasione di formazione e di arricchimento personale: non mancano certo gli aspetti critici, come l’abbandono dei rifiuti, il rischio di una città, che  nei giorni a venire possa diventare una pattumiera, la possibilità del riciclo di banconote false ( un episodio sconcertante che in fiera può avvenire),  tutto il resto invece è parte della vita da fiera.Andiamo in fiera per conoscere, ascoltare , sentire i profumi, gli odori delle tradizioni locali, senza perderci nel nostro retaggio culturale: mai pensare al nuovo come ostacolo, bensì associare la novità alla cultura del fare rete, che può succedere anche in fiera.

Matteo Spagnuolo


La verità dei giudici. Riflessioni sociologiche

Nuova foto Marco Lilli

Il presente elaborato prende spunto dal dibattito su: “Aldo Moro, trent’anni dopo”. Organizzato da Università degli Studi della Sicilia Centrale Kore di Enna e Università degli Studi di Palermo. Incontro registrato da Radio Radicale, martedì 13 maggio 2008, a Enna [1].

L’estratto del discorso qui di seguito proposto – che, osservo, lo indico come ricordo del giudice Severino Santiapichi (1926-2016), senza nulla togliere agli altri relatori intervenuti – ha, dal mio punto di vista, un immenso valore non soltanto giuridico, ma soprattutto sociale. Vale a dire non soltanto una testimonianza rivolata ai futuri giuristi, ma all’intera collettività.

Una testimonianza, dunque, quella lasciataci dall’illustre giurista (Santiapichi), rivolta alle future generazioni, e, mi permetto ancora di osservare, una Lectio Magistralis che adeguatamente compresa porta a dedurre ciò che i sociologi del diritto da sempre affermano, cioè che le questioni giuridiche non appartengono soltanto al giurista – puro, così come lo indicava Max Weber (1864-1920) – e al legislatore, che spesso giurista non lo è affatto, ma a tutta la società civile.

Anche se è fin troppo evidente come tali questioni interessino più da vicino, in particolare, il giudice, istituzionalmente investito a decidere proprio sulla sorte del singolo attore sociale, laddove questi è imputato oppure chiamato a rispondere dinanzi una qualsiasi giurisdizione.

Dalle parole di Santiapichi si comprende molto bene che il principio dell’accertamento della verità processuale è un qualcosa che non necessariamente, anzi, aggiungo, quasi mai, coincide con la verità storica dei fatti. Lo dice egli stesso in uno dei suoi passaggi che accenno appena: «Il giudice non è portatore di verità» (cfr. Registrazione in premessa).

Di fatto, il giudice per giungere ad una decisione, qualunque essa sia, deve muoversi unicamente entro i confini delle regole dettate dal codice procedurale di rito. Dunque anche quando dovesse mai sospettare una verità diversa da quella che emerge all’interno del processo, con le regole del processo, èrgo nel contradditorio tra le parti, egli dovrà orientare il proprio dispositivo tenendo conto solo e soltanto a quanto emerso dal e nel processo. Nulla in più.

Altrimenti detto, scrive più compiutamente Ferdinando Imposimato: «Di fronte al delitto, l’obiettivo fondamentale del giudice e prima ancora dell’inquirente è, o dovrebbe essere, quello di fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. L’aspetto drammatico del processo è nel fatto che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale, anche quando intuisce che essa contrasta con la verità reale, che non affiora nel processo, ma viene percepita intuitivamente e logicamente dal giudice […]. Nel primo caso il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nel confronti della quale manchino le prove, o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione […]. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione della innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie, ispezioni, corpi del reato – depongono contro l’imputato. In questo caso la conseguenza è drammatica per la persona accusata». Infatti, prosegue il magistrato: «la condanna è “giusta” sul piano processuale perché conforme alle prove raccolte, ma ingiusta su quello sostanziale» (cfr. Imposimato, 2009, pp. 6-7).

Tra l’altro, riassumendo le osservazioni di Severino Santiapichi: «Guardate i vari processi al terrorismo dal punto di vista del rapporto tra diritto e società, non vi fermate a leggere i libri di diritto soltanto […]. Voi che vi avviate a diventare giuristi dovete riflettere […]. Come giudici non facciamo storia, come giudici accertiamo i fatti secondo le strade che ci ha insegnato la procedura e abbiamo percorsi obbligati, il che non è dello storico. Allora non confondete gli aspetti storici di una vicenda dagli aspetti giurisdizionali […]. Stateci attenti, rispettate le regole, rispettatele perché sono le regole la garanzia della democrazia, non c’è altra garanzia» (cfr. Registrazione in premessa).

Del resto, scrive Paolo Grossi: «Il referente necessario del diritto è soltanto la società, la società come realtà complessa, articolatissima […] il diritto organizza il sociale, mette ordine nella rissa incomposta che ribolle in seno alla società, è innanzi tutto ordinamento […]. Mettere ordine, infatti, significa fare i conti con i caratteri della realtà ordinanda, giacché unicamente presupponendo e considerando quei caratteri non le si farà violenza e la si ordinerà effettivamente. Ordinare significa sempre rispettare la complessità sociale, la quale costituirà un vero e proprio limite per la volontà ordinante impedendo che questa degeneri in valutazione meramente soggettiva e quindi in arbitrio» (cfr. Grossi, 2009, pp. 15-16-17).

Forse c’è un ma in tutto questo, e – mi permetto di dover ulteriormente osservare – probabilmente più d’uno, cioè che l’eccesso di produzione normativa, insieme alla frequente inaffidabilità delle stesse norme, è spesso concausa di incomunicabilità e di smarrimento generale, al punto di generare forte senso di anomia, èrgo assenza di riferimenti, perciò con la reale conseguenza che troppe leggi, di frequente l’una contraddizione dell’altra, finiscono per equivalere a nessuna legge, quindi con scarso significato giuridico e altrettanta scarsa efficacia dal punto di vista del diritto più in generale (cfr. Ferrari, 2010).

Tuttavia, riprendendo ancora una volta Santiapichi: «Il giudice non è portatore di verità. La verità come valore assoluto porta all’inquisizione. Porta a raccogliere anche i frutti dall’albero velenoso. Porta a violare regole fondamentali sulla illiceità o liceità dei mezzi di prova […]. Il giudice però deve avere una cultura, e questo è molto importante. Voi, tanto se vi accingete a fare gli avvocati, quanto se vi accingete a fare i giudici, stateci attenti, la cultura però ve la dovete fare. […]. E la cultura del giudice è anche cultura dei limiti, se non soprattutto cultura dei limiti» (cfr. Registrazione in premessa).

Ma da questo punto di vista, Aristotele – a proposito della figura del giudice, «presentato come “l’uomo del giusto mezzo”» –, sostiene che: «Quando le parti sono in conflitto […] si rivolgono ad un giudice, “terzo imparziale”, dal quale si attendono che mantenga tra di loro “la bilancia alla pari”. Spetta al giudice render giustizia, vale a dire scoprire, nel rapporto controverso, il “giusto mezzo”» (cfr. Kerchove-Ost, 1998, pp. 53-54).

Mentre dal punto di vista più generale: «Simmel ritiene che di fatto non si dia mai una verità semplice e unitaria quale mero rispecchiamento del mondo, ma che sia proprio l’azione reciproca, cioè l’interazione tra individui, a costituire quelle reti relazionali entro cui gli individui ricercano la verità sul proprio conto e su quello degli altri […]. Secondo la sua prospettiva filosofico-sociologica relazionale, non solo ogni conoscenza deve essere pensata come relativa e vera anche nel suo contrario, ma noi costruiamo anche l’immagine dell’altro come “risultato di un processo analogico per mezzo del quale vediamo l’altro mediante ciò che sappiamo di noi stessi in un rapporto di reciproca dipendenza/indipendenza”. La “verità” che dell’altro riusciamo a conoscere non è quella che realmente gli appartiene» (cfr. De Simone, 2007, p. 119).

Tornando più propriamente ai processi, secondo statistica, pare che il 90% degli stessi si celebra su base indiziaria, con inevitabili ripercussioni dal punto di vista del dubbio concernente le condanne, quanto, mi permetto di aggiungere, le assoluzioni. E la Consulta, chiamata in causa, con Ordinanza 12-25 luglio 2001, n. 302, ha di fatto avallato tale istituto, respingendo la richiesta di dichiarare incostituzionale il processo indiziario (cfr. Francione, 2015).

Ebbene, secondo Putnam sono le norme di reciprocità e le reti associazionistiche e di impegno civico che incoraggiano la fiducia nella società e i processi collaborativi, giacché questi riducono gli incentivi alla trasgressione e ridimensionano l’incertezza, offrendo infine modelli per una fattiva collaborazione (cfr. Lazzarini, 2007).

Forse ha ragione Fornari, quando scrive che: «Superare l’idea che la conoscenza sia un assemblare e disporre in modo cumulativo e progressivo, meccanico e lineare, pezzi di sapere del tutto o in parte scollegati, significa riconsegnarsi alla possibilità di muoversi e, perché no, di scegliere tra diversi punti di vista, tra diverse versioni del mondo, assumendo quella che appare più rilevante e capace di dare risposte a questioni per lungo tempo rimosse e trattate come problemi marginali, inutili, privi di consistenza scientifica» (cfr. Fornari, 2014, pp. 123-124) ■

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[1] Attribuzione. L’audio qui trattato è stato estratto dal file originale registrato da Radio Radicale durante la suddetta conferenza. Il file messo a disposizione da Radio Radicale osserva il principio del rilascio con licenza Creative Commons, così come indicato sul sito ufficiale. La porzione di audio in interesse è stato inserito nella rivista da me diretta: Sociologia Contemporanea – www.sociologiacontemporanea.it/la-verita-dei-giudici/

 

Riferimenti bibliografici

De Simone A. (2007), L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Napoli, Liguori.

Ferrari V. (2010), Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza.

Fornari F. (2014), Il baule di Newton. La sociologia e la sfida della complessità, Perugia, Morlacchi.

Francione G. (2015) (a cura di), Temi desnuda. Vademecum per creare una giustizia giusta, Roma, Herald.

Grossi P. (2009), Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza.

Imposimato F. (2009), L’errore giudiziario. Aspetti giuridici e casi pratici, Milano, Giuffrè.

Kerchove M. e Ost F. (1998), Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, Giuffrè.

Lazzarini G. (2007), Etica e scenari di responsabilità sociale, Milano, Angeli.

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Pubblicato in Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872). N. 14A16 del 24/10/2016

È possibile condividere o utilizzare questo contributo a due inderogabili condizioni: 1) che sia sempre citato autore e fonti; 2) che l’utilizzo delle pubblicazioni non abbia finalità di lucro.


Strumenti atti ad offendere

MARCO LILLI

Si è tornati a parlare in questi giorni di legittima difesa e, pur considerati i dovuti distinguo col caso che sto per proporre, i limiti che a questa impone la legge. In effetti, la questione qui in esame è un po’ diversa rispetto a quella dello sventurato di turno che si è visto violato il domicilio e che, per motivi al vaglio degli inquirenti, ha ucciso l’intruso.

Infatti, preciso (ri)sottolinearne, tenendo ben divise le fattispecie, il caso in esame tratta dell’acquisto e uso del, volgarmente detto, spray al peperoncino, da molti ambito per uso difesa personale, ma da altri per motivi a dir poco discutibili.

Diciamo pure che alla lettura del Decreto 12 maggio 2011, n. 103 (Ministero dell’Interno) – riguardo al “Regolamento concernente la definizione delle caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa che nebulizzano un principio attivo naturale a base di Oleoresin Capsicum e che non abbiano attitudine a recare offesa alla persona” –, si osserva come, poste alcune prescrizioni di carattere squisitamente tecniche: «Gli strumenti di autodifesa […] in grado di nebulizzare una miscela irritante a base di Oleoresin Capsicum […] non hanno attitudine a recare offesa alle persone».

Ebbene, ciò premesso, anche in presenza del rispetto delle richiamate prescrizioni tecniche – che non sto ad elencare in quanto l’obiettivo del presente contributo ha un altro significato –, la Corte di Cassazione ha stabilito che il problema non è tanto e solo il rispetto di tali prescrizioni, quanto, anche e soprattutto, dell’utilizzo che si fa di tale strumento che può, di fatto, costituire idoneo mezzo per arrecare danno volontario alla persona.

Ritenuto in fatto: «Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello […] ha confermato quella emessa dal Tribunale […] che aveva affermato la responsabilità di […] in ordine ai reati di […] lesioni personali aggravate […] commessi spruzzando negli occhi della […] uno spray urticante».

La difesa dell’imputato, richiamando proprio il Decreto 12 maggio 2011, n. 103, tra l’altro ha così argomentato: «dall’istruttoria è emerso come lo spray urticante impiegato […] contenente l’oleoresin capsicum, principio estratto dalle piante di peperoncino […] rientri nella categoria degli strumenti di autodifesa che non hanno attitudine a recare offesa alle persone […] e che come tali non possono essere considerati armi o ad esse assimilabili».

Riguardo alle considerazioni in diritto, scrivono invece i giudici di legittimità: «la giurisprudenza prevalente di questa Corte di Cassazione ha affermato il principio che il porto in luogo pubblico di tale bomboletta, contenente gas urticante idoneo a provocare irritazione degli occhi, sia pure reversibile in un breve tempo […] è idonea ad arrecare offesa alla persona e come tale rientra nella definizione di arma comune da sparo […] o ancora è ricompresa nel novero degli aggressivi chimici […] Risulta, perciò, isolata la decisione della stessa Prima Sezione Penale di questa Corte che aveva stabilito che la bomboletta contenente spray urticante a base di peperoncino non è ricompresa né tra le armi da guerra o tipo guerra né tra quelle comuni da sparo».

E inoltre, riguardo sempre al dettato di cui il Decreto 12 maggio 2011, n. 103: «Il tenore di detta previsione evidenzia che la sottrazione del dispositivo alla categoria degli oggetti atti ad offendere […] è subordinata non solo alla condizione di conformità alle caratteristiche tecniche […] ma anche alle modalità di impiego esclusivamente finalizzate all’autodifesa personale, mentre l’impiego come mezzo d’offesa […] comporta la piena e incondizionata applicazione della normativa in tema di armi» (cfr. Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 10889/17, decisa il 24 gennaio 2017, depositata il 6 marzo 2017).

In conclusione, al di là dei singoli punti di vista che ognuno potrà esprimere in una direzione rispetto ad altra, a me pare che almeno un dato emerge certo dalla lettura delle suesposte motivazioni, cioè che se da un lato il Decreto 12 maggio 2011, a firma del Ministro dell’Interno, ha cercato di fare chiarezza in merito all’offensività del prodotto (dal punto di vista esclusivamente tecnico con riferimento al rispetto di talune caratteristiche), dall’altro, nulla ha chiarito (probabilmente non poteva in quanto fuori dalla propria competenza) in merito all’elemento psicologico riconducibile all’utilizzo del prodotto stesso, usato cioè come difesa da un’aggressione proveniente da terzi, piuttosto che come strumento necessario a produrre un’azione aggressiva ■

Dott. Marco LILLI

Sociologo Criminologo

www.sociologiacontemporanea.it

 

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GLI ULTRAS: MODE , IDEOLOGIE E DEVIANZE. DALL’INGHILTERRA ALL’ITALIA, LE CURVE FRAMMENTATE

D'ASCOLA FULVIOIl calcio  ,un prato verde ,le scalinate, le tribune e le curve. Lo stadio, un microcosmo che attraverso i decenni cambia : da palcoscenico sportivo a luogo dove le tensioni si sfogano attraverso azioni che dal tifo per la propria squadra ,si trasformano in laboratori di devianze. Ultras, mode , ideologie e devianze. Uno stile di vita, un miscuglio di stili, che dall’Inghilterra si espande in Italia , con motivazioni differenti . Hooligan e Ultras, sostenitori di squadre di calcio, micro cellule di aggregazione, fisicità e subculture .Liverpool,Manchester,Leicester,Chelsea,il calcio inglese si permea di mode e stili, dai prodromi degli anni sessanta con i Mods  ,nati tra la fascia sociale del sottoproletariato british, che attraverso la moda e la musica vivono la loro dimensione identificativa. Le mode cangianti fanno nasce gli Skinhead, che alla fine degli anni sessanta appaiono tra i sostenitori del Leicester. Gli Skinheads amano la musica reggae, vestono con cappottoni imbottiti di lana, maglie mohair, giacche Harrington .Dopo gli Skinhead arrivano negli settanta i Casual, che uniscono lo stile di abbigliamento misto tra abiti firmati e sportivi ,partendo da Liverpool i tifosi seguendo la squadra nelle coppe europee, saccheggiano i negozi di abbigliamento sportivo diffondendo il marchio ADIDAS, tra gli Hooligan con i Casual che si vestivano con scarpe e giubotti Adidas. Hooligan e Ultras. Differenti mode e modi di sostenere la propria squadra. In Inghilterra ,il tifo organizzato è caratterizzato dall’iniziativa del singolo e dall’uso dei cori negli stadi. In Italia ,il tifo organizzato è strutturato in modo apicale. Esiste il capo, un direttivo ed una organizzazione piramidale . Al centro della curva c’è il “il lancia cori”, che dirige vocalmente il settore, con il gruppo Ultras schierato dietro lo striscione identificativo, con fumogeni, tamburi e megafoni. La differenza tra Hooligan e Ultra , esiste nel modo di sostenere la squadra, con cori in Inghilterra e con megafoni, tamburi, striscioni ,fumogeni e canti in Italia. Sembra tutto bello il mondo del tifo organizzato, ma dagli anni settanta le tensioni sociali dalle piazze si spostano sulle curve degli stadi. La società italiana vive grandi problematiche, tra  ”Strategia delle tensione” e rivolte studentesche ,tra crisi identificative ed austerity. Negli anni ottanta la politica si scioglie, le ideologie si frantumano , la società di massa include l’informazione ,creando modelli di vita consumistici.

Tangentopoli svuota i partiti dal ruolo di sovrastruttura ideologica e le sedi politiche si svuotano. Nelle curve degli stadi , abbondano i simboli identificativi ,tra croci celtiche ed immagini di Che Guevara, si alimentano tensioni, scontri tra tifoserie. Gli anni duemila arrivano in fretta e con le pay tv, si frantuma ulteriormente il fronte degli spettatori allo stadio. L’esposizione mediatica televisiva predilige la spettacolarizzazione dell’evento sportivo, svuotandolo di contenuti etici, diffondendo immagini di calciatori tatuati, con tagli di capelli molto glam e copertine di giornali con sportivi e starlette. Devianze, la debolezza del singolo che nel gruppo diventa forte ,tutto si trasforma, nelle curve si identifica il disagio sociale e diventano il luogo  in cui attraverso le immagini in tv, si propaga il tifo, ma anche la protesta contro tifoserie e città avversarie. Violenza, scontri, tifosi accoltellati, tutori dell’ordine morti a seguito di incidenti. Lo scenario dello sport si traspone e si sconvolge e dal 2007 diventa controllato da severi disposizioni legislative. Il salotto di casa, diventa il luogo   solitario dove assistere alla partita, con il singolo che diventa spettatore di uno spettacolo televisivo. Si perde l’odore dell’erba del terreno di gioco, si perde lo spettatore attore che incita   la squadra con i cori lanciati dalla curva, che saltella sfottendo le tifoserie avversarie ,si perde il senso di appartenenza ad una bandiera, ad un luogo, ad una città.DASPO,Tessera del Tifoso,tornelli, le proibizioni allontanano la gente dagli stadi ,la paura ,la mancanza di motivazioni,sono il dissolvimento dello spirito sportivo.Ultras,ideologie,mode e devianze,in una società massificata, con lo sport che è solo un frammento di un marketing mondiale.

Fulvio  D’Ascola, portavoce nazionale dell’Associazione Sociologi Italiani


IN WORK THERE BE EFFECTIVE SOCIAL INCLUSION

d01a6bd8-ab50-4d45-8247-b19736051512A Donnici, frazione di Cosenza, abbiamo pensato ad un modello di integrazione sociale concreto, in funzione di quella che il collega Fulvio D’Ascola definisce sociologia di prossimità, basato sulla partecipazione attiva finalizzata all’inserimento socio-lavorativo di venti migranti provenienti da tutte le parti del mondo (Nigeria, Mali, Pakistan, Kurdistan, Marocco, Senegal, Brasile, Canada). Un coacervo di razze, culture, tradizioni, religioni, unite dal sacro vincolo del lavoro, della collaborazione, dello sviluppo comune, del miglioramento delle proprie capacità, senza alcuna distinzione perché laddove c’è unità di intenti, laddove ci sono mani che lavorano, siano esse bianche o nere o brune, c’è l’uomo: unico, totale, indistinto, figlio di Dio. Il Progetto, “Pane Spezzato”, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è un esempio di come con tanta buona volontà, passione per il lavoro, sana accoglienza per il prossimo, si possano instaurare vincoli di amicizia puri, perché il rispetto per l’altro non ha confini. Bianchi e neri o mulatti uniti nel lavoro, come vera fonte di emancipazione e progresso, contro ogni forma di esclusione sociale. Nel corso degli ultimi quindici anni l’immigrazione in Calabria è diventata sempre più consistente incontrando la buona accoglienza della popolazione autoctona.17353277_1414452108627686_741986137357047359_n

Così la Calabria, pur ritornando ad essere terra di emigrazione, è passata da territorio di accoglienza e transito a luogo di inserimento stabile per molti cittadini stranieri che lasciano le proprie terre per trovare quella dignità che dovrebbe rappresentare il patrimonio di ognuno. Travolta dall’emergenza Nord Africa la Calabria è interessata da lungo tempo dalle stabilizzazioni di migranti nel lavoro, negli affetti familiari, nel senso di appartenenza ad una regione sempre meno terra di transito e sempre più territorio d’insediamento stabile, una realtà irreversibile e strutturale che appartiene alla storia recente della regione e la conduce con progressione costante alle sfide dettate dalla convivenza con le altre culture.

CONVEGNO BARRIERE 1 DAVIDE FRANCESCHIELLOUn evento nuovo ed epocale, ma che non sembra creare rilevanti problemi di integrazione sociale anzi, tranne in sporadici casi, le genti di Calabria hanno accolto di buon grado chi, più sfortunato di loro, ha chiesto aiuto e sostentamento e le azioni quotidiane messe in atto dalle associazioni coinvolte in questo progetto ne sono un piccolo esempio. Adesso ci vuole fare un passo più in avanti per l’integrazione sociale di questi nostri “fratelli”, essere un esempio, e dare loro, oltre ad accoglierli decorosamente, la possibilità di apprendere un mestiere tradizionale della nostra terra (quello del panettiere) e stimolare quei processi di inserimento nella società e di predisposizione ad azioni autosufficienti basilari nella lotta alla povertà ed alla esclusione sociale. L’obiettivo del progetto, che potrebbe essere inteso come un vero e proprio progetto pilota da replicare in altri contesti sociali, mira ad implementare azioni di accompagnamento orientate a raggiungere sempre più alti gradi di autonomia ed auto sufficienza, di inclusione sociale, sviluppo di comunità, in particolare tese a valorizzare gli emarginati come attori protagonisti del loro riscatto sociale.

In esito a tale percorso è prevista la realizzazione di azioni di arricchimento mediante specifici corsi di formazione. Laboratori a carattere tecnico artigianale, finalizzati a far acquisire specifiche competenze nel mestiere del panificatore e pizzaiolo.2a3c7352-8169-4d75-a1e3-c928fce364c5 Attività laboratoriali attuate in funzione di favorire soprattutto il potenziamento delle risorse individuali attraverso la ri-acquisizione di competenze relazionali, cognitive e lavorative, sull’acquisizione di strumenti e di abilità, in quanto l’emarginazione può essere vinta dalla partecipazione.

d4918652-ee4b-4d4d-b7c3-03f9a9b905e1 (1)L’intendimento del progetto è quello di prospettare la migrazione con una connotazione totalmente positiva, ovvero come una risorsa per la comunità di appartenenza e tutto il territorio di riferimento in modo da favorire l’integrazione sociale dei destinatari dello stesso e facilitarne l’inserimento lavorativo, aggredendo ogni forma di discriminazione e disparità presenti nella società. Gli immigrati possono e devono, per coscienza civica, essere considerati una risorsa e non un peso per la comunità di cui fanno parte.

Davide Franceschiello, dirigente nazionale dell’ASI- Associazione Sociologi Italiani


L’era dell’internet facile: la tecnologia al passo con il tempo

 

iPhone-8-wireless-chargingL’informazione veloce, le parole distratte e brevi, le emoticon nei messaggi ( sarebbero le faccine dopo un’affermazione o negazione oppure seguono intervalli di frasi e periodi) i poke, le richieste facebook, le richiesta da effettuare su instagram o il semplice click del “segui”fanno parte di un contenitore web alquanto avanzato, di cui è opportuno farne memoria o quantomeno esserne al corrente.Giorni fa nelle sale cinematografiche il film “Beata Ignoranza”con Gassman e Giallini ci ha restituito uno spaccato della società super tecnologica, un po’ un richiamo all’intelligenza dèmode’, fino ai  tuttologi web di Gabbani e del suo Sanremo: un film che riprende la quotidianità di alcuni personaggi, indagando sui loro vissuti più o meno al passo con i tempi, un occhio sempre vigile sul presente, la cui forza deriva dai dispositivi tecnologici ( i cellulari, l’ipad, l’iphone, il macbook hanno il potere di raggiungere un’utenza oltreoceano).E’interessante ricordare come alcune invenzioni abbiano migliorato la vita delle persone, ed in effetti è realmente così: chi inventò il cuscino, sicuramente lo fece per garantire riposo assoluto a chiunque ne avesse bisogno, ma non avrebbe mai immaginato di costruire un’arma di distruzione di masse, basti pensare  che con il cuscino possono avvenire morti per soffocamento.Tale similitudine spiega la potenza delle invenzioni della post modernità, così come  la scoperta dei telefoni ha migliorato la vita di tanta gente, il cui scopo è quello di raggiungere più utenti possibili in brevissimo tempo: con le nuove app del telefono come whatsapp, facebook, instagram si riesce ad essere connessi 24 ore su 24, senza mai perdere un evento, una notifica, una news, in poche parole si resta sempre aggiornati, rischiando di perdere il contatto con la vita “non virtuale”.L’essere connessi tutto il giorno può portare alcune conseguenze, che possono sfociare in dipendenza: la dipendenza dalla tecnologia è un fenomeno molto frequente, e ne sono affetti sia uomini che donne, oltre ad un gran numero di adolescente e bambini ( quando si tratta di bambini entriamo in un altro pianeta).

L’era moderna è un grande uragano di idee, novità, di download e update continui, di link, di condivisioni di link, di visualizzazioni, che diventano parte integrante del vocabolario di professori, adolescenti, mamme, padri,  professionisti di ogni settore.Se non sai cosa vuol dire linkare, rischi di essere fuori dal mondo, e se non utilizzi il post su facebook perdi la credibilità, con conseguente perdita del follower precedente, il cui rischio è quello di perderne le tracce ( i followers sono a volte uno stimolo alla vita social,lasciando da parte le sfaccettature di psicologia dello sviluppo).Anche le foto assumono una particolare rilevanza, tanto da costringere il singolo individuo  a scattarne continuamente una, da quelle più ammiccanti e sexy a quelle artistiche ( paesaggi, cibo, opere d’arte, monumenti) che catturano un pubblico di uomini e donne: l’app instagram è un modo facile per condividere momenti di vita quotidiana con i followers, o ha la funzione di seguire vip, personaggi in voga, i quali si definiscono“fashion bloggers” oppure un modo per divertirsi con la fotografia e sponsorizzarla nei modi più disparati.Le due modalità di utilizzo dell’app fanno la differenza, ed ognuno può trarne vantaggio o svantaggio, a seconda delle proprie aspirazioni, percezioni e sogni da realizzare.Se si investe tutto il tempo sul social, allora bisognerebbe creare un business intorno a questo cerchio magico, cercando le migliori soluzioni del caso:  infatti Steve Jobs nel 2005 , durante il suo discorso all’Università di Stanford si rivolse agli studenti dicendo: “ Stay hungry, stay foolish” che tradotto letteralmente vuol dire: “ Restate affammati, restate folli”.Il restare affamati sta a significare come sia importante avere sempre voglia di imparare, essere ambiziosi, superare i propri limiti, che non certo va a cozzare con l’idea di restare folli, cioè di fare scelte azzardate, di rischiare, di mettersi in gioco. Il suo invito è un monito a non perdere mai la freschezza della giovinezza, che è curiosità, ambizione, voglia di imparare, mettersi alla pari con gli adulti, superare le barriere, lasciarsi guidare dall’intuito: una vera scienza di amplessi cerebrali che portano alla vittoria delle menti eccelse.

Quando parliamo i  Ibook, macbook, g4, iphone parliamo di grandi uomini, di menti scientifiche, tutto a misura d’uomo, effetto di una società moderna, in cui nessuno poteva immaginare qualche deragliamento, oppure un abuso di questi mezzi-che ha portato alla distruzione di molte vite: la condivisione veloce di immagini (sexting), il prelievo di dati sensibili(hacheraggio), per poi approdare verso l’inutilizzo per certi versi ( la paura di rischiare). L’invito è di non stancarsi mai del nuovo, del bello, ma di servirsene ab orgine, cioè partendo dalle origini della loro creazione, oltremodo può succedere che da uno schermo possa esserci anche qualcosa di umano, pertanto tutto è relativo.Gli studi di settore ancora svolgono analisi e ricerca di dati, in un continuum di messaggi, di aggiornamenti e di fonti certe o quasi attendibili: non stanchiamoci mai di capire cosa c’è dietro un’app, un telefono, un pc, perché solo andando a scavare nel tessuto più intimo, riusciremo a capirne il significato reale, educandoci alla cultura dell’essere social in modo equilibrato e giusto.

Matteo Spagnuolo


Etica e tempo della conversazione online

GIacomo Buoncompagni 3Gli ultimi eventi e le recenti ricerche inerenti a fenomeni di violenza in Rete, bufale online, hate speech, dimostrano sempre di più che il problema oggi non riguarda solo la tecnologia, ma l’uomo, la sua conoscenza, le sue fragilità,  il suo livello di “alfabetizzazione mediale-digitale”, il suo “stare nei media” piuttosto incerto.Il nostro comportamento all’interno dei social mostra a noi tutti che, come le scienze comportamentali ci insegnano, siamo più mossi dalle emozioni che dalla ragione, che preferiamo mantenere intatti nostri pregiudizi anche se ciò a cui crediamo si dimostra poi totalmente errato, che siamo sempre meno disponibili al confronto e abili haters davanti ad uno schermo. In poche parole : ascoltiamo e comunichiamo non per capire, ma solamente per rispondere e  si entra in contatto con l’Altro in quanto “diverso”.Alcuni sociologi, analizzando la dimensione comunitaria nel nuovo scenario digitale, riconoscono la nascita di nuove forme di legami che definiscono “neotribali”: le modalità per sentirsi vicino ad una persona ruota esclusivamente attorno ad uno stato emozionale comune: la simpatia.Tali formazioni chiuse, autoreferenziali, non hanno progetti comuni, non diffondono conoscenza, non sono classificabili come  “intelligenze collettive e connettive”, ciò che le muove è il semplice desiderio di sentirsi parte di un gruppo dove tutti la pensano allo stesso modo; dunque  non c’è confronto, ognuno vive tranquillo con le proprie verità nella propria “bolla”.L’utilizzo inconsapevole dei  social  in questo senso, rischia di essere utilizzato per costruire strategie difensive per deviare dall’eticità, per sfuggire al processo di negoziazione e condivisione necessario (per sua definizione) in un processo comunicativo-relazionale.Paul Ricoeur, filosofo della comunicazione, affermava come fosse  necessario individuare sempre una “situazione limite” in ogni cosa e cioè capire quando l’utilizzo dei social, in questo caso, nutre o danneggia una società.

Riconsiderare la dimensione etica e umana della comunicazione è un passo necessario; più che capire come comportarci nel nuovo ecosistema mediale dovremmo seguire tre principi/virtù, che il filosofo ci suggerisce, che ogni individuo dovrebbe seguire e trasformare in pratiche mediali contemporanee: precisione: capacità di mettere in campo risorse e accertarsi che quello che stiamo comunicando sia chiaro e preciso in modo da favorire feedback; sincerità: essere disposti a dire quello che effettivamente si pensa, creando confronto, partecipazione attiva e critica nei social; cura: saper “curare” le conseguenze della mia comunicazione; ogni contenuto messo in circolo può infastidire o interessare ed è necessario essere in grado di prevedere questo doppio effetto.A quest’ultimo concetto, potremmo legare quello di “ospitalità” espresso dal sociologo Silverstone nel suo lavoro “Mediapolis”: nella nuova società mediale trasparente e connessa è d’obbligo imparare ad ascoltarsi e rispettarsi all’interno dell’ambiente digitale, attivare quel riconoscimento reciproco anche attraverso il medium, per non rimanere schiacciati dall’overload di informazioni.Disintossicare il web ed educarci ai media è possibile a partire dalla creazione di un nuovo storytelling positivo e responsabile, che punti al bene comune e non all’autocelebrazione, all’ascolto dell’Altro e non al maggior numero di like.La diffusione del bene moltiplica il bene, genera un nuovo ecosistema di sapere e contenuti che rafforzano il benessere e la coesione sociale.Oltre alla dimensione etica, c’è un altro punto interessante “la gestione del tempo di convers-azione”.Il tempo all’interno del web è sinonimo di dialogo, strategia, azione e ascolto attivo, ma bisogna essere in grado di saperlo gestire e questo significa innanzitutto iniziare ad accettare che il contesto ipermedializzato in cui ci muoviamo si nutre di opinioni, stati emotivi differenti che devono necessitano di diventare  strumento di maggior confronto e negoziazione e non di odio e falsità.La nuova competenza mediale da sviluppare riguarda la capacità di “compartimentale il nostro tempo di convers-azione”, saper costruire una risposta sempre meno istintiva ed emotiva, ma più ragionata, approfondita, sincera, basata su una comunicazione assertiva e quindi chiara ed efficace senza bisogno di prevaricare il nostro interlocutore. Questa è la nuova sfida contemporanea, prendersi tempo per conversare..anche in Rete.

                                                                                                                                                          Giacomo Buoncompagni

 Dottore  in comunicazione , specializzato con master in comunicazione pubblica e scienze socio-criminologiche . Esperto in comunicazione strategica e linguaggio non verbale. Cultore della materia e Collaboratore di Cattedra  in “Sociologia generale e della devianza“ e “Comunicazione e nuovi media”presso l’Università di Macerata. E’ Presidente provinciale dell’associazione Aiart di Macerata e autore del libro “Comunicazione Criminologica”( Gruppo editoriale l’Espresso2017).     giacomo.buoncompagni@libero.it

 

 

 


Crimine e società: tra normalità, limiti e necessità sociale

 

 

Il crimine può essere definito un tratto “normale” o addirittura necessario per una società?

giacomo buoncompagni foto tesseraSecondo quella che Randall Collins definisce “sociologia non ovvia”e seguendo principalmente il pensiero del sociologo Emile Durkheim, la risposta è si.Il crimine e le sue punizioni sono una parte fondamentale dei rituali che sostengono una struttura sociale, addirittura potremmo sostenere che lo scopo sociale di tali punizioni, non sia ottenere un effetto concreto sui criminali, ma rappresentare uno specifico rituale che sia da esempio e vada a beneficio della società.Il rituale crea emozione, credenze, unione ad un gruppo e la società, in questo caso, si unisce contro il criminale, lo riconosce colpevole e ciò provoca un sentimento di disgusto nei suoi confronti e del brutale atto compiuto; tale emozione è partecipata e condivisa dalla maggioranza, si può parlare dunque di comunità.La società ha bisogno del crimine per sopravvivere.Secondo Durkheim, senza crimine “non ci sarebbero rituali di punizione”, scomparirebbero i sentimenti morali, le regole non potrebbero essere interpretate in modo cerimoniale e questo potrebbe spezzare quei legami che tengono insieme un gruppo e l’intera società.Se si considera però la società come “concetto”, scopriamo che i veri attori sono i singoli individui e che l’interesse a punire i criminali è solo una forma simbolica di potere: dopotutto, perché dovremmo preoccuparci di chi viene derubato o ucciso? Principalmente la risposta è legata all’idea di gruppo e alle dinamiche emotive che lo caratterizzano: le persone devono sentire qualche coinvolgimento morale nel gruppo per interessarsi al problema della criminalità e, non è un caso, se sono proprio le persone meno soggette al crimine ad essere le più preoccupate.Crimine, punizione e preoccupazione, per il criminologo americano Collins, sono questioni simboliche-politiche; i crimini violenti sono quelli che hanno maggior effetto partecipativo, in termini emotivi, e che mobilitano la popolazione, rafforzano o  indeboliscono idee e concetti.

Se quindi la struttura sociale crea il crimine, c’è un limite alla quantità di crimine che essa produce? Secondo Collins si, altrimenti la società cadrebbe a pezzi e con l’aiuto delle norme e dell’azione delle forze dell’ordine, possiamo notare come sia lo stesso crimine ad autolimitarsi nella società.Questo processo di autolimitazione inizia proprio quando una determinata organizzazione criminale comincia ad avere parecchio successo e tende ad ingrandirsi, diventando cosi un piccola società con regole e gerarchie.Non potendo lavorare allo scoperto e isolatamente, comincia a tendere verso la regolarità e la normalità: il crimine funziona meglio quando è più organizzato, ma più diventa organizzato e più tende a rispettare le leggi e ad autodisciplinarsi.“Crimine e società oscillano avanti e indietro su questa dialettica di paradossi”, afferma Collins.Dunque, se la vita sociale crea il crimine, il crimine crea una sua antitesi: il crimine scaccia il crimine.

 

Buoncompagni Giacomo

. Dottore  in comunicazione , specializzato in comunicazione pubblica e scienze socio-criminologiche . Ha conseguito diplomi di master universitari di secondo livello in ambito criminologico-forense. Esperto in comunicazione strategica e linguaggio non verbale. Cultore della materia e Collaboratore di Cattedra  in “Sociologia generale e della devianza“ e “Comunicazione e nuovi media”presso l’Università di Macerata. E’Presidente provinciale dell’associazione Aiart di Macerata e autore del libro “Comunicazione Criminologica”( Gruppo editoriale l’Espresso2017).     giacomo.buoncompagni@libero.it

 


RICOSTRUIRE VOLTI: UNA BATTAGLIA CIVILE

 

foto giornata della donnaBasta un attimo, anche un  secondo per far cambiare una vita, per spezzare un’anima, prima ancora di un corpo:l’acido che uccide e che sfigura, senza lasciare traccia alcuna. Ogni giorno una donna viene sfigurata con l’acido, solo perché donna e di proprietà dell’uomo violento, non abituato alla cultura del rispetto e dell’amor proprio. In molti paesi la pratica dell’acido è divenuta un must, una coazione a ripetere all’infinito, un memoriale della spietatezza, al fine di distruggere la donna in quanto tale. Asia, Pakistan, Bangladesh ed India contendono il primato per questo genere di aggressioni, a seguire c’è l’America Latina, in particolare la Colombia. Un migliaio di vittime in Colombia,soprattutto negli ultimi dieci anni, il cui scenario appare sempre lo stesso( un copione ripetuto con gli stessi attori e con la stessa tecnica). Può essere tuo marito, tuo cognato, tuo fratello, tuo zio, tuo cugino, un tuo vicino di casa, persino uno sconosciuto, accomunati da un comune denominatore: uccidere con l’acido, anche se la vittima non muore completamente, ma rischia la mutilazione. La morte non fisica non pregiudica quella dell’anima, perché è la prima a morire, un’anima fragile che si spezza e diventa immobile, plastificata e sfigurata. Partendo da una testimonianza di una donna “sfigurata con l’acido”, possiamo ben comprendere il fenomeno devastante, la cui portata ed intensità è di stampo etico e civile. Il corriere della Sera ci consente di entrare nel cuore delle vite di due colombiane, una si chiama Gina Potes, 40 anni, tre figli: aggredita nel 1996 da una sconosciuta sull’uscio della porta; l’altra si chiama Patricia Espinosa,39 anni, due figli: aggredita in strada da due sconosciuti nel 2008. Decidono di dare voce a tante donne che non ce l’hanno fatta a difendersi, ad uscire dal baratro della depressione, della tristezza, dell’assenza fisica in società a causa del volto sfigurato, ed il modo per dare espressione a questo loro bisogno è l’associazione “Reconstruyendo rostros»”che tradotto vuol dire “Ricostruendo volti”. Il termine ricostruire ricompare in ogni nano secondo, effetto di una denuncia sociale ad un problema serio e grave, la cui entità va ispezionata e scardinata in ogni singola parte, senza mai togliere la guardia: le storie di non amore non accolgono l’altro, ma lo allontanano sempre di più.

Gina Potes, in una sua dichiarazione, afferma: “Arriva un momento, in cui decidi di dire basta alla carne bruciata, e di darti una seconda opportunità, e lo fai per le altre pure”.Patricia, invece, si racconta, partendo da se stessa: “E’un’aggressione alla donna, solo per il fatto di essere donna, sentivo la mia pelle accartocciarsi come plastica, che a poco a poco si disintegra, mi sentivo bruciare la carne, la pelle, senza poter far nulla”.L’acido brucia i tessuti della pelle, fino ad arrivare alle ossa, talvolta sciogliendole, la cui funzione è quella di mutilare, torturare e sfigurare, peggio di un colpo di pistola in fronte: chi uccide con l’acido è una persona “non umana”, ma pronta all’odio e alla soppressione di personalità, perlopiù donne, ma acidificati possono essere anche gli uomini.Mai dimenticare altri casi di ragazze acidificate: Lucia Annibali- avvocato di Urbino, sfigurata nel 2013 sul pianerottolo di casa da un uomo incappucciato, che le getta dell’acido solforico addosso, ed oggi sta combattendo la sua battaglia; poi una vittima recente è stata Gessica Notaro, sfigurata dal suo fidanzato sotto casa, un 29enne originario di Capoverde; Domenica Foti , aggredita dal marito, il cui movente pare che sia di natura passionale; Katie Papier-sfigurata dopo una lite dal suo fidanzato, perché geloso e possessivo, una gelosia che costringerà Katie a sottoporsi a 110 interventi di chirurgia plastica.Ricostruire i volti è la ragione primaria per cui molte donne si uniscono, non tanto per riavere bellezza o forme estetiche più o meno normali, bensì si vuole ricominciare a guardarsi dentro, curando l’anima lesa, partendo anche dal viso.Il viso è lo specchio dell’anima, insieme agli occhi ovviamente, di conseguenza una loro menomazione può portare all’oscurantismo delle parti intime del cuore: la ricostruzione è uno step essenziale per ridare vita a chi la stava per perdere.

Matteo Spagnuolo

 


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