Per una sociologia della felicità

Esiste un ramo della sociologia che non corrisponde ad alcuna cattedra né indirizzo di studio, ma che sta prepotentemente reclamando l’attenzione che merita un argomento centrale. Un ramo che potremmo definire trasversale alle varie sociologie corrispondenti dai sottosistemi e che sembra definire, nel suo prendere corpo, il vero scopo della sociologia. Definirei questo ramo la “sociologia della felicità” e il suo oggetto l’individuazione dei criteri e degli standard, nonché degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della felicità intesa come valore sociale (collettivo, strutturale, relazionale e individuale).

I pensatori degli ultimi decenni hanno giustamente indicato il fattore economico – la diseguale distribuzione delle risorse materiali – come il maggior ostacolo che impedisce alla maggioranza di  accedere non già alla piena felicità, ma alla possibilità di costruirla partendo dalla serenità esistenziale e sicurezza nel futuro.

Domenico de Masi, professore emerito di Sociologia del Lavoro, da anni si occupa di queste tematiche con uno sguardo rivolto al futuro, agli sviluppi tecnologici, produttivi e sociali che i suoi più giovani colleghi spesso non riescono a eguagliare. Il suo ultimo saggio edito da Einaudi collega il passato al presente e al futuro, passando in rassegna gli eventi e le due maggiori teorie del passato contemporaneo con la situazione presente e la costruzione del futuro: le molte occasioni mancate nell’intraprendere una via per una più egualitaria distribuzione delle risorse che renderebbe possibile una società della sicurezza e della felicità. Il saggio contrappone due teorie, due visioni e orientamenti politici estremamente polarizzati in una teoria neo marxista di sociologia critica e nel suo opposto, una scuola neoliberista economicista che non disdegna derive autoritarie per il mantenimento dello status quo.

Il primo capitolo è dedicato alla Scuola di Francoforte, la cui conoscenza è fondamentale per chi volesse approfondire le tematiche sociologiche. Essa ha contribuito a un importante sviluppo del marxismo integrandolo con riflessioni di carattere antropologico e psicosociologico con teorici quali Herbert Marcuse, Theodor Adrono, Max Horkheimer Jürgen Habermas e lo psicanalista Erich Fromm. Walter Benjamin la definì come una costellazione interdisciplinare di prestigiosi intellettuali che ha ruotato dal 1923 ai giorni nostri intorno all’Institut für Sozialforschung incardinato, senza farne parte, nell’Università  Goethe di Francoforte.

Nel secondo capitolo l’esposizione dei teorici e dei corollari della scuola di Vienna e del potere da essa acquisito grazie agli ingenti flussi di capitale scandisce gli eventi storici dello scorso secolo fino alla situazione attuale nell’affermare il neoliberismo economico e culturale in buona parte del globo terrestre anche per mezzo di potenti e coercitive ingerenze geopolitiche quali il “Washington consensus”.

La seconda parte si apre esponendo le quattro concezioni del lavoro che hanno segnato lo scorso secolo: quella cattolica, quella marxista, quella liberista e quella socialista, a cui se ne aggiunge una quinta: quella derivata dalla produttività industriale capitalista e che si propone di massimizzare l’efficienza minimizzando i costi, una sorta di versione ingegneristica del liberismo il cui maggiore esponente è stato indubbiamente Frederick W. Taylor, nella sua organizzazione della fabbrica della Ford (questa disposizione, immortalata dall’indimenticabile Charlie Chaplin nel suo capolavoro “Tempi moderni”,  è infatti comunemente chiamata taylorismo o fordismo). Il riferimento al protestantesimo calvinista come origine del capitalismo “ascetico” di Max Weber si infrange inevitabilmente contro la realtà dei fatti nell’emergere della società dei consumi. Autori illuminati come Keynes, che pur non mettendo in dubbio il capitalismo – per lo meno ufficialmente – antepongono il progresso e la sicurezza della piena occupazione al profitto hanno dato luogo a brevi periodi di serenità economica, un piccolo scorcio della felicità che ci è stata negata.

Non è possibile per un sociologo essere neutrale nelle analisi che puntano al cuore della vita individuale e collettiva: la sopravvalutata avalutatività del ricercatore rischia di fare la fine del suo teorico, colpito da depressione nel vedere tradita la propria fiducia nel capitalismo ascetico. De Masi non nasconde mai il proprio orientamento né i suoi desideri di vedere un giorno applicato interamente l’art. 3 della nostra Costituzione per la rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione piena delle persone e della collettività. In una società più giusta lo sviluppo tecnologico industriale in tutti i settori e le nuove scoperte scientifiche consentirebbero a tutti di lavorare meno e in maniera più gratificante: la felicità è a un passo da noi, ma quel passo ci vene costantemente impedito.


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