IL RITORNO ALLA PIAZZA? UTOPIA DEL TERZO MILLENNIO DI UNA SOCIETA’ OSTAGGIO DEGLI URLATORI

EDITORIALE di Antonio Latella * –

La società italiana segna un ritorno agli urlatori. Nulla a che vedere con quella corrente musicale che fece la sua breve apparizione nel corso dei “Trenta gloriosi” dello scorso secolo, quando il Paese attraversava il cosiddetto boom economico. 

A sin. Antonio Latella

Ci dispiace deludere qualche nostalgico di Tony Dallara che fischietta ancora il suo cavallo di battaglia “Romantica”. In questa sede non prenderemo in esame neanche la disputa generazionale tra i sostenitori del genere melodico riconducibile a Nilla Pizzi, a Claudio Villa, Luciano Tajoli, e quelli dei cosiddetti anticonformisti da Celentano a Joe Sentieri.

Vorremmo, ma non possiamo e, soprattutto non vogliamo: non siamo tuttologi, ci mancano le competenze. Preferiamo invece parlarvi della società di oggi: ridotta in stato confusionale dall’aggressività del linguaggio quasi sempre urlato e, ahinoi, entrato ormai in tutti i segmenti della vita sociale, politica, istituzionale, sindacale, religiosa, associazionistica, culturale. E chi più ne ha più ne metta.

Oltre ai decibel dei tradizionali media – radio e televisione – si registra il tentativo del ritorno all’uso della piazza: messo in atto dal sindacato, dalla politica, da gruppi di disobbedienti, dai “neoluddisti” dell’ambientalismo e dal clero. E non solo. La piazza dei partiti di massa e del sindacato del periodo fordista è solo un ricordo del passato rimastoci in mente tra nostalgia e folclore. Tutto “resettato” dai paradigmi neoliberisti, dal capitalismo finanziario che prima desertifica, poi passa alla conquista di nuove terre vergini sempre più funzionali alla massimizzazione del profitto.

I problemi sociali non si risolvono alzando la voce e con il ritorno alle piazze che, nella società della comunicazione, sono diventate virtuali, più pericolose, invadenti e anarchiche. In realtà si tratta solo un ricordo dei nostalgici dell’arengario come se il tempo si fosse fermato alle adunate oceaniche caratterizzate da slogan, bandiere politico-sindacali e dalle truppe trasportate da treni speciali e da pullman che da nord e sud confluivano a Roma per sfilare per le vie della capitale prima di confluire a piazza San Giovanni.

Viaggi a carico della politica e del sindacato: “imbucarci” per una trasferta gratis a Roma, compresa di cestino con colazione e bibita (sempre a scrocco) per noi della generazione dei baby boomers era un vero piacere nonostante l’iniziale disagio di portarci dietro una bandiera rossa o con la sigla di un sindacato di ispirazione cattolica: imbarazzo che, tuttavia, durava il tempo dell’avvio del corteo. Poi gli stessi simboli venivano abbandonati in un cassetto dell’igiene ambientale per consentire di diventare normali turisti e senza l’obbligo di cantare l’inno dell’Internazionale.

La piazza faceva parte di una precisa strategia sindacale e dei partiti di opposizione che, mostrando i muscoli, riuscivano a centrare solo parzialmente i loro obiettivi e, qualche volta, riuscivano a mettere in crisi il governo la cui resilienza non avrebbe retto alle istanze sociali del Paese. Anche perché, all’epoca, gli esecutivi erano destinati a durare ancor meno di oggi. Perciò, il recupero di questo vecchio cavallo di battaglia della sinistra è un non senso. Per tutta un serie di motivi e circostanze passate ormai alla storia: la crisi della stessa sinistra in primo luogo, che ha dato fiato alle destre e ai movimenti populisti; la fine dei partiti  della prima Repubblica, demoliti dal terremoto giudiziario di “mani pulite”, ispirato dalla vecchia sinistra raccogliticcia in un coacervo di ideologie che ha prima spianato la strada al berlusconismo e, una volta imploso quest’ultimo, anche a causa dell’illusione patita dal Paese dall’incoerenza del Movimento 5S, ha spostato l’elettorato su Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Le capacità della Premier sono indiscutibili, ma la prima leader donna del nostro Paese è costretta a gestire con grande fatica i continui distinguo e il protagonismo degli altri partner di Governo. Compito che l’attuale Primo ministro sta svolgendo con acume politico e autorevolezza. Agevolata in questo compito da una larga maggioranza che, nonostante le continue fughe in avanti di qualche suo “generale”, riesce ad andare avanti in un Parlamento sempre più svuotato della sua primaria funzione legislativa per lasciare spazio alla decretazione d’urgenza. Si tratta di un vecchio sistema che ci rimanda ad epoche lontane della storia d’Italia.

Ai parlamentari va bene così… ed allora meglio affidarsi alla piazza e agli urlatori di turno. Nostalgia e folclore, ma niente pathos, solo presenzialismo: apparire, salire sull’arengario e strappare applausi di circostanza, amplificati dall’ipocrisia. Basta urlare, demonizzare l’avversario: come tanti granelli di un rosario di quindici poste per attribuire le colpe sempre agli altri. In uno scenario di angeli e demoni. I viaggi di protesta nella capitale – fermi per la pandemia- sono regolarmente ripresi: non sappiamo e non ci interessa sapere a spese di chi. La partecipazione non è certo quella di un tempo, anche per la diminuzione della rendita statale destinata alla politica e per l’emorragia di iscritti al sindacato.

Sull’arengario, a turno, salgono vecchie e nuove figure ma le platee sono sempre più ridotte, tanto da costringere gli operatori televisivi ad evitare i campi lunghi. Nel sindacato le gerarchie degli interventi oratori vedono prima la Cgil seguita da Cisl e Uil: ognuno imposta la voce, si agita, suda, grida in attesa dell’applauso che spesso tarda a venire. E’ il finale di tutti gli interventi si condensa nella “minacciata” d mobilitazione del Paese. Gli oratori della politica emettono sentenze contro governo e maggioranze che lo sostengono: per loro tutto è sbagliato e tutto è da rifare. Sembra un film ripetuto quotidianamente dalle tv di Stato e dalle reti commerciali.

Sul palco degli urlatori, non mancano gli arcieri della società civile e i sacerdoti antimafia. Questi ultimi invece di citare il Vangelo – i cui insegnamenti sono antimafia e, al tempo stesso, anticorruzione, di condanna ai ladri, allo sfruttamento dell’uomo da parte di altri uomini, e di invito ai tutti i cristiani al rispetto della solidarietà, contro il razzismo, le guerre, le discriminazioni –  parlano molto di condanna e poco di redenzione, conversione, perdono. I sacerdoti del Terzo millennio amano poco la povertà invocata da Papa Francesco per farsi contagiare della società consumistica dimenticando la loro vera missione evangelica, a beneficio delle tentazioni secolari.

A completare il quadro sono i campioni della convegnistica che, al giorno d’oggi, pare abbiano smarrito completamente la propria funzione di approfondimento delle questioni, anche dal punto di vista tecnico, per diventare il piccolo proscenio messo a disposizione di ego ipertrofici e autoreferenziali. Il campionario dei temi trattati è il più disparato: la parità di genere, il femminicidio, la legalità, lo sviluppo economico, le politiche per il Mezzogiorno, il PNRR, i beni confiscati alle mafie e anche il Ponte sullo Stretto, e via dicendo. Resta da chiedersi come mai anni, se non decenni, di convegni, seminari, tavole rotonde et similia abbiano lasciato intatti i problemi del Mezzogiorno, i femminicidi, la questione di genere, il sottosviluppo economico e la mafia, mentre del Ponte non c’è neanche l’ombra di una pietra. Perché magari non parlare un po’ di meno – possibilmente senza strillare quando lo si deve necessariamente fare – e agire di più?

* Sociologo, giornalista e presidente nazionale dell’ASI- Associazione Sociologi Italiani –


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