COSCIENZA CULINARIA E CONNESSIONE TRA CIBO, CERVELLO ED EMOZIONI

di Federica Ucci

La sociologia, a partire dagli anni ’70,  inizia ad occuparsi di cibo ed alimentazione, definiti da Epicuro “bisogni naturali e necessari” al raggiungimento di uno stato di eudemonia (stare bene), ovvero di benessere.

Dott.ssa Federica Ucci

I grandi eventi dell’esistenza individuale (nascita, comunione, matrimonio, eccetera), di fatto, avvengono intorno a una tavola imbandita, dove il cibo scandisce appunto le tappe della vita, diventando elemento identitario di una comunità. In ogni epoca storica e in ogni società sono riscontrabili riti, usi e consumi collegati all’alimentazione.

Il rito dei pasti scandisce il tempo dei giorni, delle settimane, dei mesi, ed è la società che crea la dieta degli individui, stabilisce i rituali in cucina e fonda quella coscienza culinaria e domestica che caratterizza la vita quotidiana all’interno della società e per la quale ciascun individuo sviluppa e rafforza la convinzione istintiva di appartenere a un gruppo sociale o a una comunità. Ecco, dunque, che la tavola è il luogo simbolico della commensalità, dove si svolge uno scambio relazionale, culturale e di regole tra persone, in accordo con quello che Norbert Elias definisce processo di civilizzazione della società.

A tavola la coscienza individuale incontra quella collettiva e il passato resta presente nella tradizione, nei costumi, nella continuità dei luoghi e nella rappresentazione dei simboli propri della cucina. La naturale propensione dell’essere umano a voler consumare i pasti in compagnia dei suoi simili crea con-vivio attorno alla tavola, dove ci si racconta e, letteralmente, si vive insieme. Oggi nella società è ancora salda la struttura della coscienza culinaria, oltre al consumo dei pasti in famiglia, resiste quello assieme ai parenti e agli amici, l’atto di alimentarsi è un “connettore sociale” o, come dice Durkheim, una “rappresentazione collettiva” dotata di forte rilevanza culturale all’interno del percorso identitario di una comunità.

Anche Simmel collega il momento del pasto alla socievolezza, cioè a quella forma di sociabilità che vede nello stare insieme il momento in cui l’individuo abbandona i propri impulsi egoistici a favore di un legame sociale, ludico ed emozionale. Per questo sociologo, infatti, la cosa che più accomuna gli uomini fra loro è il momento del mangiare, che trasforma il pasto in un fatto sociale sovra individuale e caratterizzato da specifiche regole di condotta[1]. In un periodo storico così “unico”, in cui siamo continuamente costretti a rivedere tutte le nostre abitudini, l’unico “comfort” sempre disponibile è il cibo. Oltre ai classici pasti, c’è chi mangia più spesso (ad esempio per noia) e in un momento come quello attuale, in cui si deve affrontare una certa deprivazione della socialità, il cibo, oltre che una pausa diventa anche una coccola, un sostituto affettivo.

Inoltre, ci troviamo nel periodo dell’anno in cui diminuiscono anche le ore di luce e si fa più forte il bisogno di ricercare benessere attraverso altre modalità. Soprattutto durante le settimane di lockdown, le cucine della maggioranza delle persone si sono trasformate in veri e propri “laboratori di felicità”, attraverso la sperimentazione di nuove ricette, da soli, in modalità “social” attraverso le varie videoconnesioni oggi disponibili o insieme alla propria famiglia. Oppure, nei momenti più “down”, il cibo è stato un fedele alleato per risollevare le sorti delle giornate più difficili.

Il nostro cervello è capace di elaborare stimoli, che devono essere per la maggior parte positivi per poter creare nuove sinapsi e connessioni cerebrali, per questo, in generale, non ama le privazioni. Ad esempio, i bambini per evolvere correttamente hanno bisogno dell’affetto dei genitori, di nutrirsi bene, di buoni insegnanti, di un ambiente stimolante, tuttavia il cervello si struttura non solo in base agli stimoli ricevuti nell’infanzia, ma anche in base a quelli che riceve per tutta la vita adulta. Il termine “dieta” deriva dal significato dell’etimo greco “diaita”(= stile di vita) e già questo indica che una corretta alimentazione deve sempre essere inserita in un contesto generale di vita sana ed equilibrata, tutti sappiamo che è cosa buona e giusta abbinarla sempre anche all’attività fisica.

Generalmente, la “questione cibo” rientra nei pensieri di molte persone, in diverse modalità: ci sono i cultori della forma fisica perfetta, le buone forchette che non rinuncerebbero mai a “uno dei pochi veri piaceri della vita”, gli equilibrati che, senza gravi rinunce, cercano di soddisfare il palato e non acquistare troppo peso. Va da sé che la cosa più importante è non incorrere in comportamenti rischiosi per salute, sia esagerando coi digiuni che, all’opposto, concedendosi troppi strappi alla regola, magari in presenza di patologie. Come detto in precedenza, il cervello non gradisce le eccessive limitazioni, per capire come il cibo sia collegato alle emozioni un valido esempio è proprio quello delle diete.

La maggior parte di esse fallisce perché generalmente non si tiene conto, o lo si fa poco, dei gusti personali delle persone e, pur consigliando del cibo sano, si cerca di abbassare le calorie per far perdere peso, ma l’organismo ha bisogno di introdurne una certa quantità per poter sopravvivere e far funzionare il cervello: il metabolismo basale indica l’energia, proprio in termini di calorie consumate nell’arco della giornata, utilizzata per garantire le cosiddette funzioni basali del nostro organismo, ovvero quelle funzioni indipendenti dalla nostra volontà, come il battito cardiaco e la respirazione, che iniziano al momento della nascita e si interrompono solo con la morte[2].

Le calorie servono per le funzioni vitali e, alla lunga, il cervello in qualche modo si ribella, facendo saltare la dieta in quanto, per dirla con un gioco di parole, non è funzionale al suo buon funzionamento. Inoltre, per creare buone connessioni esso ha bisogno di “mangiare” cose che gli piacciono, costringendolo a fare diversamente, prima o poi innescherà questa ribellione pur con la consapevolezza che un certo tipo di cibo fa bene ed è più salutare di altri. Il disgusto, dal punto di vista evolutivo, ci ha salvato la vita: ciò che in natura non è buono, risulta amaro, acido, eccetera, smettiamo subito di mangiarlo non appena ci entriamo a contatto.

Nel corso dell’evoluzione, infatti, non erano sempre disponibili confezioni o etichette, bisognava basarsi su altre osservazioni sensazioni e situazioni. Ad esempio, i bambini fino a una certa età non amano alimenti amari, come l’alcool, che è potenzialmente tossico per loro, ma iniziano a sperimentarlo da adolescenti, quando iniziano a far parte di un gruppo di amici (nei casi peggiori di un branco) e, almeno all’inizio, al di là del gusto questo è un fatto “sociale”, si beve per sentirsi accettati, essere come gli altri e sentirsi parte di qualcosa. Solo successivamente si potrà gradire e gustare come bevanda, quindi finché non iniziano ad entrare in gioco certi altri meccanismi, il cervello rifiuterà istintivamente certi cibi. Un bambino molto piccolo, che non sa leggere, si basa solo sul suo istinto, e in automatico non ama il cibo scaduto. Da adulti, stiamo perdendo sempre di più questo istinto, mentre il cervello lo reclama frequentemente per fini innati di sopravvivenza. Un’altra sensazione molto importante è il piacere, perché fa percepire benessere psico-fisico.

Il cervello dirige l’organismo e decide cosa ogni organo deve fare, inoltre gli invia stimoli positivi anche attraverso il cibo e il gusto: quando “gustiamo” qualcosa che ci piace, il cervello prova piacere ed essendo un’esperienza positiva favorisce la liberazione di neurotrasmettitori per lui fondamentali, come le endorfine, che hanno funzione analgesica ed eccitante e favoriscono sensazioni piacevoli. Per questo siamo più portati a mangiare cose che ci piacciono, pur sapendo che ci fanno ingrassare o fanno male, rispetto a un cibo dietetico e salutare, alla lunga preferiamo ciò che più ci aggrada.

Il piacere deriva da informazioni provenienti dalle papille gustative della bocca,ma anche dalla vista, dall’olfatto, dal tatto, quando ad esempio mangiamo con le mani e dall’udito, quando il rumore che provoca la masticazione manda un preciso segnale al cervello (pensiamo a quando mangiamo le patatine, se restano all’aperto dopo giorni non ci piacciono più come appena tirate fuori dalla confezione e mangiate, ed anche il rumore e la consistenza non sono uguali).Non bisogna poi tralasciare il contesto: mangiare o bere qualcosa in compagnia ha un effetto metabolico diverso rispetto al farlo in solitudine o in una situazione noiosa, sarà percepita come meno buona, eppure si tratta dello stesso prodotto, siamo noi diversi e lo è anche l’ambiente.

Il cibo non è solo mangiare qualcosa, è anche esperienza, combinazione di tutti i sensi in un ambiente quando lo assaporiamo, ma anche un insieme di informazioni su come è prodotto, da chi, dove.

Questa esperienza produce effetti a livello fisico e soprattutto mentale, produce sensazioni, memoria, nuove informazioni e ci permette di diventare più sofisticati ed esperti di ciò che mangiamo, visto che lo facciamo tutti i giorni. Mangiare tanto, sia in termini quantitativi che di frequenza, può dare benessere ma alla lunga destabilizza l’organismo, soprattutto quando si tratta di determinati cibi: i carboidrati, ad esempio, nell’immediato danno piacere ma poi creano dipendenza da essi, proprio come una droga che, finiti i suoi effetti “super” produce astinenza. Fisiologicamente il cervello non ama i picchi di insulina, ogni volta che mangiamo i livelli di glicemia e zuccheri salgono nel sangue. Il glucosio non può restare a lungo in circolo altrimenti può danneggiare l’endotelio vascolare, quindi il pancreas libera l’ormone dell’insulina che ne favorisce lo smaltimento.

Se si mangia molte volte al giorno si ripete questo meccanismo e il cervello non ama essere in balìa di questo mare in tempesta fatto di insulina, altri ormoni, succhi gastrici eccetera. L’insulina viene liberata soprattutto dai carboidrati, il cervello consuma più energia degli altri organi e, rispetto a quanto si crede erroneamente, gli zuccheri non sono troppo importanti nel fornirgli energia ma amplificano, piuttosto, la risposta infiammatoria dell’organismo.Questo stile nutrizionale influisce molto anche sul sonno e sui ritmi circadiani. Il nostro cervello è il principale orologio biologico, ma ogni organo è strutturato per fare cose diverse a seconda che sia giorno o notte.

In sintesi, quando ci svegliamo la mattina, il cortisolo, ormone dello stress fisiologico, inizia a salire fino a un picco verso le ore 15 e serve per essere lucidi ed attivi: pensiamo all’uomo primitivo, che doveva alzarsi e andare a cercare il cibo. Con la luce del Sole a spettro blu siamo molto attivi, verso il pomeriggio il cortisolo inizia a scendere. Al tramonto la luce inizia ad avere uno spettro rosso e inizia a salire l’ormone della melatonina. Nel nostro cervello, il nucleo soprachiasmatico è sensibile ai fotoni della luce, quando sorge il sole inibisce la produzione di melatonina, favorendola quando tramonta: questo è un ritmo normale e fisiologico.

La melatonina favorisce il riposo ma ha anche altre funzioni, ha un ruolo centrale nella regolazione dei ritmi circadiani ma da anche la giusta energia a cervello ed organismo attraverso la soddisfazione contemporanea del palato. Alcuni studi hanno dimostrato che i chetoni, dei metaboliti prodotti dal fegato a partire dai grassi, sono la fonte principale di energia per il cervello. Ad esempio, il beta-idrossibutirrato è quello più utilizzato dal cervello e riesce ad arrivarvi passando la barriera emato-encefalica, arrivando alle cellule astrocite e fornendo moltissima energia alle migliaia di mitocondri presenti nei neuroni. Ancora, gli Omega3 sono acidi grassi essenziali importanti non solo per la salute del cervello ma dell’organismo in generale, tra le loro funzioni stabilizzano le membrane di tutte le cellule, favoriscono la trasmissione sinaptica e abbassano il livello di infiammazione.

Anche il digiuno prolungato favorisce la produzione di chetoni, essi di conseguenza sono funzionali altresì nella stabilizzazione dell’umore e nella regolazione delle emozioni, perciò, passare da uno stile di vita caratterizzato dal metabolismo degli zuccheri a uno caratterizzato da quello dei grassi e mangiare in modo regolare, sembra favorevole sia per i muscoli che per il cervello, il quale non si trova più in mezzo alla tempesta ma può navigare in un mare calmo[3]. L’uomo è, quindi, legato al cibo in tantissimi modi ed è davvero ciò che mangia, esso non è solo elemento di sostentamento, che sazia ma si trasforma in status, in sentimento, in piacere e in molto altro. Si mangia anche per soddisfare l’appetito delle proprie emozioni e, a volte, per credere di riuscire a gestire, insieme alla quotidianità, anche la propria emotività, ma non sempre ci si rende conto che, invece, si è proprio in balìa di essa e della sua chimica.

Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa Specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali


[1] L. Meglio,“Sociologia dell’alimentazione e del cibo. Un’introduzione”,Franco Angeli, Milano, 2017.

[2] https://www.nutrizioneesalute.it/nutrizione/metabolismo-basale

[3] Per approfondimenti sul tema affrontato si rimanda alla pagina fb “Real Way Of Life – ITA- Strumenti e tecniche per la salute di mente e corpo”. In particolare, in questo articolo si fa riferimento al seminario online (disponibile gratuitamente) “Cibo, Cervello,Emozioni: come l’alimentazione influisce su emozioni, ansia, stress, disturbi dell’umore e psicosomatica”, a cura di Sara Achilli, cofondatrice del Centro di Ricerca insieme a Fabio Sinibaldi.


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