Sport e pandemia

INTERVISTA AL PROF. NICOLA RINALDO PORRO

di Patrizio Paolinelli

Nicola Rinaldo Porro è uno dei più importanti sociologi italiani dello sport. Docente universitario, ha al suo attivo numerosi studi e ricerche. Lo incontriamo per una breve riflessione sullo sport al tempo del Covid-19.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

La pandemia ha inciso negativamente su gran parte dei comparti economici. Quali sono state le principali ricadute sull’industria dello sport professionistico?

L’impatto economico della pandemia sul grande sport professionistico è stato sicuramente più rilevante per l’indotto interessato agli eventi che non per i club professionistici. Questi ultimi hanno sviluppato da almeno due decenni straordinarie capacità di diversificazione commerciale dell’offerta di sport spettacolo. Gestire un pacchetto di eventi televisivi per un pubblico confinato fra le pareti domestiche non è meno redditizio ed è assai meno operativamente impegnativo che governare il complesso e delicato sistema dello sport campionistico “in presenza”. Senza contare i risparmi realizzati dalle società in materia di costi, talvolta assai rilevanti, per garantire la sicurezza dentro gli stadi e nelle loro immediate vicinanze. A soffrire l’impatto maggiore in termini di fatturato commerciale non sono dunque i grandi club calcistici, garantiti dai diritti televisivi, quanto piuttosto la pulviscolare offerta di servizi legati alla mobilità delle tifoserie e ai servizi di ogni genere rivolti al pubblico degli stadi, ormai malinconicamente condannato a consumare un tifo da divano.

Lo sport è anche un grande anestetico sociale. Nel senso che serve a canalizzare l’aggressività e a distrarre il pubblico. Da questo punto di vista, la pandemia ha cambiato qualcosa?

Non credo. È anzi probabile che l’efficacia anestetica – che peraltro non vorrei considerare il tratto dominante dell’esperienza sportiva che costituisce un caleidoscopio di emozioni, bisogni di identità e forme di socialità variegato e non privo di contraddizioni – sia addirittura cresciuta. A parere di tutti gli osservatori competenti – psicologi, giornalisti, operatori sociali – la pandemia sta inducendo a tutte le latitudini effetti depressivi su larga scala. Forse anche lo sport formato Sky, l’esperienza del tifo da divano, può addirittura assolvere una funzione surrogatoria nella impossibilità materiale di sperimentare alternative più gratificanti. Quanto all’aggressività, la distanza fisica ne riduce l’impatto concreto e quindi la “pericolosità” nel caso di comportamenti inappropriati che conosciamo e che non dovremo rinunciare a contrastare.

Non dobbiamo però illuderci che siano state rimosse le dinamiche profonde che innescano la violenza. Sono fenomeni carsici, indagati ormai da decenni dalla psicologia sociale. Si alimentano della subcultura comunitaria del tifo, che a sua volta eccita e riproduce dinamiche di aggressività “a spirale” che di quando in quando sfociano in vere e proprie simulazioni della guerra. Le radici sono profonde e richiederebbero strategie di contrasto anche in condizioni di normalità. Guai però, lo ripeto, a liquidare anche i fenomeni più inquietanti come l’inevitabile prodotto del consumo di sport. Le ascendenze dello sport sono nella civiltà classica, non nella barbarie. Bisogno far leva piuttosto sulle potenzialità civiche, solidaristiche, relazionali – soprattutto dello sport praticato, ma anche della fruizione agonistica degli eventi – sviluppando in maniera non precettistica o banalmente moralistica una vera e propria pedagogia della condotta sportiva. Un compito che spetta anche, e direi soprattutto, alle agenzie di socializzazione come la scuola e alle reti familiari e amicali troppo spesso disimpegnate in materia.

Da un anno a questa parte l’attività sportiva amatoriale è stata fortemente limitata dalle misure anticontagio. Con quali conseguenze sul piano dei rapporti sociali?

Questo è un aspetto della pandemia fra i più drammatici e preoccupanti. Da molti mesi ormai gli impianti sono deserti e l’accesso ad essi è comprensibilmente sottoposto a drastiche limitazioni. Ciò compromette necessariamente la preparazione degli atleti e i programmi di allenamento, soprattutto per le specialità in cui è quasi impossibile prescindere dalla vicinanza fisica, dal contatto, da quella felice contaminazione di emozioni condivise e di esercizio disciplinato della corporeità che fa dello sport praticato un fenomeno di ineguagliabile rilevanza sociale.

Ancora di più, però, dovrebbe preoccupare la forzata regressione alla sedentarietà che, senza scomodare le rilevazioni statistiche, sta dilagando in questi mesi. Ciò è particolarmente preoccupante in un Paese come l’Italia che ha istituito un rapporto schizofrenico con la galassia dello sport. Rimaniamo pur sempre la quinta o la sesta potenza olimpica al mondo, occupiamo un rango prestigioso in una vasta gamma di discipline competitive. Allo stesso tempo, però, l’Italia arranca al terzultimo posto nell’Unione Europea per tasso di cittadini attivi. L’educazione fisica rimane la cenerentola dei programmi scolastici. La sedentarietà è una sorta di religione civile nel Paese dei pigri. Il confronto con i contesti nazionali a noi più vicini è sconfortante.

Qualcuno però potrebbe maliziosamente obiettare che lo sport fa male, dato che il Paese dei pigri registra uno dei tassi di longevità tra i più alti al mondo…

E direbbe una fesseria. Gli italiani sono effettivamente ai primissimi posti in Europa per aspettative di vita alla nascita, ma se osserviamo le aspettative di vita in buona salute e in condizioni di piena autosufficienza precipitiamo in bassa classifica. Gli epidemiologi, per fare un esempio di attualità, non si sono meravigliati più di tanto dell’alto tasso di letalità segnalato nel Covid fra la popolazione anziana. Sembra che il nostro sistema sanitario garantisca efficacemente la “sopravvivenza anagrafica” ma assai meno la qualità della vita e l’efficienza fisica che ne rappresentano la condizione primaria. Non pochi studiosi cominciano a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che l’elevato tasso di sedentarietà degli italiani in tutte le età della vita rappresenti un fattore significativo di vulnerabilità in presenza di situazioni come quelle che stiamo vivendo.

Quali consigli può dare ai cittadini che amano praticare l’attività fisico-motoria al tempo del Covid-19?

In coerenza con quanto ho appena sostenuto, il mio è un appello a “non mollare”. Ovviamente non va trascurata alcuna necessaria precauzione. Ci si dovrà vaccinare appena possibile. Andranno osservati con la dovuta premura comportamenti igienico-sanitari corretti. Ma il mio invito e il mio augurio è di non rinunciare a quell’insostituibile pratica di prevenzione e di ben-essere che è rappresentata dall’attività fisico-motoria. Il ventaglio di possibilità è talmente ampio da permettere a ciascuno di noi, a qualunque età della vita, di scegliere come, quando e con quale – prudente – livello di intensità regalare al proprio corpo e alla propria mente la felicità dell’azione motoria. Non arrendiamoci al virus!

Via Po cultura, settimanale del quotidiano Conquiste del Lavoro, marzo 2021


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