L’ITALIA FRA CRISI E INNOVAZIONE

 

FOTO MICHELE MICCOLIA dispetto di quanto potrebbe indurci a pensare la complessa situazione economica in cui il nostro Paese versa ormai da un decennio, la quale fatica a risolversi, l’Italia è stata per lungo tempo una delle maggiori potenze industriali del mondo.Continua, in realtà, ad esserlo ed a mantenere il suo ruolo, sebbene i livelli di attività abbiano subito una contrazione negli anni della crisi. Lo certificano i dati di Confindustria del 2018.Del resto l’ingegno italiano è da sempre ovunque riconosciuto, essendosi segnalato in numerosi ambiti. Non solo in quelli più accreditati e noti, quali la cultura, l’arte e la moda. Molti nostri connazionali hanno lasciato un segno indelebile nel corso della storia.  Alcune delle invenzioni scientifiche e tecnologiche più importanti si devono ad italiani. Idee geniali che hanno rivoluzionato e cambiato la vita quotidiana delle persone. Pensiamo alla radio, al telefono, alla pila e al motore a scoppio, solo per menzionarne alcune di fondamentale rilievo, ma anche alle banche, alle autostrade, ad alcune materie plastiche come il moplen, ancor oggi ampiamente utilizzato e diffuso. Oppure al primo pc, l’Olivetti “Programma 101”.Persino il padre del microchip – un congegno minuscolo eppure fondamentale per l’elettronica moderna – è il fisico vicentino Federico Faggin. Trasferitosi negli Usa durante gli anni Settanta, gli sono state conferite diverse lauree honoris causa, nonché un premio per l’innovazione nel 2010 da parte di Barack Obama. Tutto questo conferma come l’Italia sia stata, e continui ad essere, una nazione in grado di innovare, di essere competittiva e di costituire un punto di riferimento in numerosi settori ed ambiti industriali e tecnologici.

Ancor oggi, nel gennaio 2019, sono state 44 le startup italiane selezionate (oltre a spin-off e realtà aziendali) per partecipare al CES, la più importante fiera mondiale sull’hi-tech, svoltasi a Las Vegas. Progetti originali che ci consegnano l’idea di quanto il nostro Paese abbia ancora molto da dare in termini di investimenti ed innovazione. Forbes, che nel 2018 ha stilato una classifica sulle 100 realtà più importanti dal punto di vista delle novità tecniche e della visione del futuro, ha posizionato Luxottica  al 76° posto. La nota azienda di Del Vecchio, oltre che per brillanti fatturati, si segnala per la sperimentazione e l’impiego di sempre nuove tecnologie. Si è dimostrata in grado di precorrere i tempi anche nella sperimentazione della stampa in 3D, grazie a cui si ottimizzano i processi produttivi nella prototipazione. L’Italia ha, per la verità, diverse aziende che producono innovazione, dalle piccole e settoriali che riescono a cavalcare l’onda del business, a quelle importanti che ogni giorno rilanciano la tradizione del Made in Italy. Società che spiccano per la capacità di lanciare prodotti e servizi competitivi, di implementare modelli di impresa vincenti, di investire in ricerca e sviluppo.

Pensiamo a realtà come Barilla, Ferrero,  Brembo, Calzedonia, Eataly, solo per menzionarne alcune fra le più note. Ma non dimentichiamo anche nuove startup che si stanno segnalando in ambiti quali quello della robotica e dell’intelligenza artificiale applicate in svariati contesti e settori, nonché quelle che stanno puntando sullo sviluppo sostenibile, sull’utilizzo di nuove materie prime e fonti energetiche.È il caso, per esempio, di Studiomapp, che usa l’intelligenza artificiale per monitorare e analizzare dati e immagini che recupera da satelliti e droni, la quale ha ricevuto riconoscimenti dalla Nato, dall’Onu e dal Pentagono. Ha, inoltre, avviato progetti di open innovation con corporate come Snam, Acea, Indra, Italferr e SirtiNonostante ciò è un dato innegabile che il Paese versi in condizioni economiche di grande difficoltà, con una crescita vicina allo zero, con un alto tasso di disoccupazione, con politiche che non riescono a supportare la sopravvivenza di molte piccole e medie aziende, vessate in ogni modo sino ad essersi visibilmente assottigliate nel numero;  con la loro chiusura si sono persi  svariati posti di lavoro, difficilmente ricreabili.   Gli ultimi dieci anni di crisi hanno ulteriormente aggravato le debolezze che ci caratterizzano nella sfera economico-industriale. Chi si occupa del settore segnala fra le cause, in primis, la scarsità di investimenti pubblici –  in sostegno a quelli privati – nel settore R&S, con la conseguenza che le nostre imprese in numero ingente sono state acquisite da gruppi stranieri. Non si punta a sufficienza sulla formazione.  La percentuale di laureati nella popolazione è sempre più modesta e presenta una significativa polarizzazione territoriale tra alcune aree tecnologicamente avanzate nel Nord Italia e il resto del Paese.

Gli effetti della recessione hanno amplificato – come naturale – gli elementi di fragilità del sistema; i governi non sono stati in grado di studiare strategie e di mettere in atto serie ed adeguate soluzioni. Gli imprenditori, per sopravvivere, si sono sovente trovati costretti a trasferire parte delle attività – anche di ricerca – all’estero.  Le politiche di austerità – senza esprimere giudizi a riguardo –  hanno innescato una spirale perversa  a livello di micro e macro economia. La circolazione del denaro ha subito una forte contrazione.Senza investimenti ed  estensione di incentivi fiscali verso, appunto,  il settore  R&S, pubblico e privato, per quanto riguarda il periodo 2015-2020,  la divaricazione tra le attività italiane e quelle di altre realtà europee è diventata ancor più significativa.Oltre alla scarsità di risorse, le recenti strategie per la ricerca e l’innovazione presentano alcuni aspetti problematici. Non esiste, infatti, una mirata azione politica volta a creare provvedimenti che sostengano gli investimenti innovativi delle imprese. Gli incentivi, in questo settore, restano misure che mantengono un modello vetusto ed inadeguato nell’indirizzarle ad acquisire le competenze tecnologiche per rivelarsi competitive in settori chiave.

Quindi, nonostante la presenza di quel prezioso gruppo di imprese competitive citate, capaci di esportare, l’economia italiana è purtroppo caratterizzata da un ampio numero di piccole e medie società con limitatissime attività di R&S. La problematica, su cui si gioca il nostro futuro, soprattutto in rapporto agli altri Stati europei,  è diventata di drammatica attualità. Ma se ne parla dagli anni Novanta, senza risolvere. Nel frattempo l’Italia continua a perdere terreno rispetto al circolo virtuoso tra tecnologia, crescita e occupazione comune ad altri Paesi avanzati, con i quali in precedenza concorreva benissimo.La diminuzione dei finanziamenti pubblici alla ricerca  ha prodotto, nel tempo, una struttura economica in cui prevalgono le tecnologie medio-basse ed una modesta domanda di lavoro per laureati. La conseguenza è che le menti e i cervelli emigrano. Del resto che altra opzione rimane qualora la precarizzazione del lavoro divenga l’unica possibilità – anche per i non più  giovani –  per adattarsi a tale parabola involutiva?

Ad aumentare è stata così solo la competitività di prezzo basata su costi del lavoro sempre più bassi – al contrario della competitività tecnologica tipica dei Paesi europei più avanzati – con uno spostamento verso bassi livelli di istruzione, bassa produttività, bassi salari e lavori precari. Che impatto possa avere, in tempi medio-lunghi, tale traiettoria è facilmente ipotizzabile.Se i governi non sapranno investire in modo che le nostre eccellenze –  numerose e con grandi potenzialità, come accennato in apertura – possano restituire smalto e fiducia alla Nazione e alle giovani generazioni, non sappiamo quale luce intravedere in fondo al tunnel.In una realtà in cui le disparità regionali aumentano di continuo, creando zone in cui le opportunità sono quasi pari allo zero,  il Mezzogiorno non potrà che continuare ad essere territorio dove la criminalità si sostituisce allo Stato e all’onesta imprenditoria , con tutto ciò che ne consegue e che ci è fin troppo  noto.

L’Italia quindi sconta il non avere investito, negli ultimi anni,   sul futuro. È mancata, insomma, quella  spinta decisiva all’innovazione tecnologica, penalizzata da un sistema pachidermico ed immobilistico, senza progettualità, incapace di formulare adeguate politiche che potessero impedire che molte delle nostre aziende trasferissero buona parte della produzione all’estero. La soluzione,  secondo alcuni, potrebbe essere quella di scommettere sull’esempio francese, laddove si sono istituiti fondi ibridi, con capitale pubblico e privato, in modo da garantire la massima valorizzazione dei finanziamenti statali.Le dirigenze aziendali e i medi imprenditori sono attori ben consapevoli dei cambiamenti in atto.  L’incertezza continua a vertere sulle strategie e sui piani d’azione da implementare per guidare al meglio  questa importante fase di trasformazione che sta portando il mondo verso l’industria 4.0. Dalla ricerche emerge purtroppo proprio una significativa e generale sfiducia nei confronti degli sforzi messi in atto dalle nostre scelte governative.

Sebbene le statistiche posizionino ancora l’Italia  come sottolineato fra i primi posti al mondo in termini di sviluppo delle nuove tecnologie, sappiamo che  la nostra  situazione di incertezza è  da ricercarsi non solo nella dimensione economica, ma nella decadenza istituzionale e politica che non ha offerto adeguati supporti e soluzioni a chi – ogni giorno – con grandi sforzi cerca di lavorare affinché l’Italia possa continuare a vantare punte di eccellenza.C’è però uno spiraglio di luce. Le imprese dotate dei requisiti di startup innovativa  possono contare oggi su un vasto complesso di agevolazioni, quali semplificazioni ed esenzioni regolamentari, incentivi fiscali, facilitazioni nell’accesso al credito e al capitale di rischio, e nuovi programmi di finanziamento. Speriamo questo sia l’incipit di una nuova opportunità di crescita.

PROF. AVV. MICHELE MICCOLI

Vicedirettore editoriale de “Il Foglio Diamond”


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