Anni ’80, l’era della grande normalizzazione

di Patrizio Paolinelli

Di tanto in tanto assistiamo a campagne più o meno convinte sul ritorno degli anni ’80. Recentemente la convinzione si deve essere rafforzata perché da alcuni mesi è partita un’offensiva mediatica finalizzata a sostenere il ritorno di un decennio che non intende diventare una pagina di storia. E allora, se gli anni ’80 vengono costantemente riproposti, una qualche sorta di continuità tra passato e presente deve pur esserci. E in effetti c’è. Però, prima di entrare nel merito, corre l’obbligo di dire subito che l’attuale campagna stampa, così come le precedenti, nulla hanno a che fare con l’informazione. Si tratta invece di complesse operazioni di comunicazione commerciale che vedono, se mi si passa l’espressione, l’associazione d’impresa tra diverse industrie: mass-media, moda, cinema, Tv, musica e, come soci di minoranza, altre industrie ancora (dagli accessori ai giocattoli). Ognuna recita la propria parte in commedia avendo per stella polare l’interesse economico.

Come capita sempre più spesso i media spacciano per autentica una tendenza del costume costruita con le tecniche del marketing. Gli smaglianti inserti giornalistici su moda, turismo, bellezza, musica e così via rappresentano per le testate incassi formidabili perché in genere gli articoli arrivano in redazione già confezionati e al massimo vengono accompagnati da un entusiastico pezzo della piccola/grande firma di turno. Si aggiungano poi le inserzioni pubblicitarie e per la testata l’affare è fatto. La moda è meno monotona della stampa e tenta di reinventarsi tornando quest’anno a sfruttare i colori accesi, gli accessori vistosi, le spalline importanti degli anni ’80, mentre il make-up riscopre i toni vivaci e le acconciature si avvicinano ai modelli di quel decennio: tagli asimmetrici, capelli cotonati, tinte sgargianti. Nel complesso proporre oggi gli esplosivi colori degli anni ’80 costituisce un invito subliminale all’ottimismo dopo quasi dieci anni di crisi economica.

Dal canto loro cinema e Tv sono impegnati in un’intensa attività di riciclo del passato. Sul piccolo schermo tornano così Perry Mason, Arma letale, L’esorcista tanto per citare qualche titolo; per non parlare del cinema con la lunga serie di remake, sequel, prequel e reboot, i cui risultati sono spesso deludenti. Basti per tutti lo sconfortante Alien: Covenant di Ridley Scott uscito da poco nelle sale cinematografiche. Insieme al cinema e alla Tv chi guarda con insistenza al passato è l’industria discografica. La quale da tempo non fa che riproporre ristampe, remake, ricostruzioni ed è dominata da reunion tour, festival-anniversari, cover band, riscoperta del vinile e fascino vintage. Insomma è tutto un revival, mentre la musica pop sembra incapace di innovarsi. L’oggi musicale finisce così per sembrare la brutta copia di ieri. E per questo motivo il passato ritorna sia direttamente, tramite i suoi protagonisti, sia indirettamente, tramite la loro influenza sulle attuali produzioni. Con tutta probabilità le cause della retromania in cui si sta trovando ingabbiata l’industria musicale sono dovute tra l’altro all’eccessivo sfruttamento della creatività artistica, alla standardizzazione dei prodotti, alla corsa al successo immediato. Assistiamo così al ritorno sulla scena di vecchie glorie del pop e del rock la cui qualità artistica è ancor oggi insuperata.

Fatto il punto sull’attualità resta da capire cosa siano stati gli anni ’80 da un punto di vista critico in modo da comprendere come mai il loro ritorno rappresenti una costante dell’industria culturale. Naturalmente non abbiamo la pretesa di esaurire l’argomento in un articolo ma alcuni paletti possiamo fissarli. Partiamo dall’economia. Tra il 1983 e il 1987 il Pil cresce al ritmo del 2,5% l’anno, le esportazioni crescono, l’inflazione scende al 4,6%, la borsa di Milano aumenta la propria capitalizzazione di oltre quattro volte e circa il 60% degli occupati è assorbito dal terziario. Dinanzi a questa netta ripresa dell’economia un bel libro fotografico sul decennio 1981-1990 è correttamente intitolato dall’autrice, Manuela Fugenzi, Il mito del benessere (Editori Riuniti, Roma, 1999). Scrive Fugenzi: “nella nostra memoria, è il decennio del dilagare dei consumi e dei successi dell’esportazione, dell’orgoglio del made in Italy che, come sintomo di un processo di sprovincializzazione, andrà progressivamente modificando l’immagine tradizionale del nostro paese. In un contesto di laicizzazione della società e della politica in cui scompaiono chiese e ideologie, si assiste all’enfatizzazione di nuovi valori”.

La figura sociale emergente che incarnerà i nuovi valori è quella dello Yuppie (Young Urban Professional). Si tratta del giovane e rampante manager statunitense ansioso di guadagnare molti soldi più in fretta possibile e il cui stile di vita e di lavoro diventerà un modello anche per noi italiani. Nasce così il mito della “Milano da bere”, la città che non dorme mai e in cui sfuma sempre più la distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero: per lo Yuppie ogni relazione è un’occasione per fare profitto o quantomeno per guadagnare qualcosa in termini di contatti e visibilità. Da qui l’ossessione per il look e la forma fisica. Smisurato edonista, grande consumatore di cocaina e di fotomodelle lo Yuppie avrà tuttavia vita breve. In generale lascerà la ribalta all’apparire della crisi economica dei primi anni ’90 e per quanto riguarda casa nostra soffocherà ingloriosamente nei miasmi di Tangentopoli.

Va da sé che lo Yuppie è il modello ideale della politica reaganiana. Politica che getterà le basi per una rivincita mondiale del capitalismo messo seriamente in discussione dai movimenti del ’68 e degli anni ’70. Non a caso tali anni non sono oggetto di campagne di recupero da parte dell’industria culturale. La quale, in continuità con lo yuppismo, offrirà all’immaginario collettivo un’altra figura a cui ispirarsi: il professionista delle nuove tecnologie. Gli anni ’80 sono infatti il decennio in cui il personal computer inizia a entrare sempre più nei luoghi di lavoro e nelle famiglie. E così, neanche tanto gradualmente, la rivoluzione tecnologica occupa gli spazi dell’immaginario che dal ’68 al ’77 erano stati prerogativa della rivoluzione politica. Il risultato è che oggi sono rimasti in pochi a non distogliere lo sguardo dinanzi alle crescenti ingiustizie sociali. L’unico leader globale di questo tipo è Papa Francesco.

Gli anni ’80 sono anche gli anni in cui si assiste al riflusso nel privato. Ossia a un forte disimpegno dei cittadini nella politica. Tendenza che giungerà a completo compimento con le attuali giovani generazioni ormai del tutto spoliticizzate e dunque in difficoltà nel comprendere ciò che gli accade intorno: dalla disoccupazione alle guerre in Medio Oriente e così via. Durante gli anni ’80 il movimento femminista e quello operaio inizieranno la loro parabola discendente e oggi possono dirsi praticamente estinti.

Dopo la fine dei partiti di massa ai nostri giorni l’attacco della quasi totalità del mondo dell’informazione si concentra sul sindacato, ultimo corpo intermedio da ridurre ai minimi termini per lasciare campo libero alle “riforme”. Ancor oggi parola magica e terribile, la stagione delle “riforme” venne promossa negli anni ’80 da Bettino Craxi e aveva come obiettivo principale il contenimento del costo del lavoro. Correva l’anno 1984 e nel medagliere dell’allora segretario del PSI annoveriamo l’abolizione della scala mobile (il sistema di adeguamento dei salari al costo della vita attraverso gli scatti di contingenza) che taglierà sensibilmente le buste-paga. Anche questa è una tendenza che da oltre trent’anni vediamo galoppare senza sosta fino a giungere all’oggi: basse retribuzioni, precarietà, cancellazione dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Appare chiaro a questo punto che gli anni’80 riemergono ciclicamente perché costituiscono il decennio in cui prende avvio un’era: l’era della grande normalizzazione che condurrà all’attuale società dominata dalla forma-merce. Giovani e lavoratori dipendenti sono due dei principali bersagli di tale processo. Ai primi la Tv commerciale, che in Italia si afferma proprio negli anni ’80, offrirà, e offre tutt’ora, un modello di vita fondato sul consumismo, sul mito borghese del self-made man, e su un anticonformismo di facciata. Per quanto concerne i lavoratori dipendenti a partire dagli anni ’80 ad oggi si è compiuto il dominio pressoché assoluto del capitale sul lavoro. In Italia gli ultimi capitoli di questa storia sono stati il Jobs Act e l’attuale polemica sui voucher. D’altra parte, proprio nel 1989 inizia la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che per quanto sia stata più che criticabile per molti e fondati motivi, rappresentava comunque un modo di produzione alternativo al capitalismo e dunque ne conteneva gli attacchi al lavoro dipendente.

Fatta fuori qualsiasi alternativa alla visione economica liberista ecco germogliare altre continuità tra gli anni ’80 e il presente. Due mi colpiscono particolarmente. Una è il ritorno del fascismo. L’altra è la spettacolarizzazione dell’informazione. Rispetto alla prima, dopo un lungo periodo di silenzio è proprio negli anni ’80 che i fascisti iniziano a pieno titolo nel dibattito politico fino ad arrivare alla piena visibilità dei nostri giorni. Da tempo ormai i nostalgici del ventennio svolgono manifestazioni pubbliche, sono presenti in massa sui social network, infangano la memoria della Resistenza, vengono intervistati in Tv e le loro pur confuse parole d’ordine costituiscono fonte di attrazione per molti giovani.

La legittimazione de facto del fascismo è un fenomeno sottovalutato così come è sottovalutata la seconda continuità tra gli anni ’80 e l’oggi: la spettacolarizzazione dell’informazione. La quale si gioca soprattutto in Tv. Infatti ,dinanzi al costante e drammatico calo di vendite della carta stampata il piccolo schermo offre un’ottima alternativa; dove però realtà e finzione si mischiano alla ricerca spasmodica dello scoop, del sensazionale, di tutto ciò che fa clamore: la litigata in diretta, l’affermazione choc, l’esibizione oltre le righe, le malefatte dei politici, quelle dei dipendenti pubblici e, si badi bene, mai campagne stampa contro le malefatte degli imprenditori. Gli anni ’80? Il lungo parto che ha dato alla luce il pensiero unico.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.

prof. Patrizio Paolinelli

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