Naufraghi nel tempo

Il benessere mentale in un’epoca di transizione

di Patrizio Paolinelli

Modernità senza progresso

Nelle società tecnologicamente avanzate la salute è minacciata in ogni istante. Non c’è luogo dove sia del tutto al sicuro: né in casa né tantomeno fuori casa. Questa continua sfida probabilmente fa parte dei rischi connaturati alla vita intesa nel senso di “coevoluzione genetico- culturale” (Lumsden, Wilson, 1984).

<< == Prof. Patrizio Paolinelli

Ma noi siamo esseri civilizzati e ci interroghiamo sul perché il primordiale tenga sotto scacco l’attuale. Uno stallo dalla perenne durata che ha come risultato non certo la resa della conoscenza ma la sua ostinata e ben congegnata offensiva.

La scienza preme così sulle nostre esistenze offrendoci soccorso, fiducia, speranza. Tutti buoni motivi per convivere con l’aria inquinata, i costi stratosferici dell’acqua imbottigliata, le sofisticazioni alimentari, i prodotti geneticamente modificati, le malattie sociali, gli incidenti stradali, i disastri aerei, le morti sul lavoro, il clima impazzito, le nuove pandemie. Anche a causa di questa cahier de doléances per molti l’ideologia del progresso è una narrazione senza più voce. Resta però la modernità. Una fase storica che non ha trovato ancora approdi ultimi se non il provvisorio prefisso post. E resta una regola universalmente accettata: il cambiamento continuo.

Nonostante la modernità debba concludere il proprio autosuperamento e nonostante i rischi che ci fa correre, l’innovazione in quanto tale costituisce ancora oggi la risposta prevalente offerta dalla società postindustriale alle insidie, i drammi, le incertezze che circondano la salute. Questo significa semplicemente che la lotta contro disagi e malesseri passa attraverso la categoria dello sviluppo. Aumenta il Pil nazionale e si assiste al prolungamento della speranza di vita, cresce la produttività e fiorisce la medicalizzazione del quotidiano, siamo socialmente premiati per il nostro mostrarci giovani, sani, sportivi e incrementiamo i meccanismi di autocostrizione.

La prima linea della lotta senza quartiere contro la malattia e l’invecchiamento è ovviamente il corpo. Una prima linea a difesa da nemici noti e ignoti. A ben guardare, una difesa del presente e contro il futuro. Mai giunga il domani sotto la nostra ben armata muraglia di innovazioni tecno-scientifiche perché vedremmo noi stessi. Perciò convivremo ancora a lungo con la transizione postmoderna.

Distinzione tra dolore e sofferenza

La tutela sui rischi per la salute gode prevalentemente di due spazi di protezione. Spazi dichiaratamente pubblici come l’ospedale, lo studio del medico di famiglia, l’attenzione dei media su acciacchi e malattie, le serie televisive ispirate al lavoro dei medici, i dibattiti sulla spesa pubblica per la sanità. Territori saturi di significati che indicano una soglia di attenzione collettiva in progressiva crescita intorno a un fenomeno sociale sempre problematico. Ci sono poi spazi dichiaratamente privati come l’igiene personale, l’essere in forma, lo stile di vita. Province della cura di sé che segnalano un secondo ed altrettanto importante livello di interesse collettivo declinato nella versione del benessere, della prevenzione, del fitness, del buon vivere.

Nello spazio pubblico destinato alla salute il corpo anatomico è solitamente elemento passivo in complice balia di esperti a cui bisbiglia i propri mali. In quello privato il corpo estetico-sportivo è un agente attivo che ha nelle proprie mani l’anima così come una volta si diceva del destino. Il primo è il regno del dramma, della malattia vissuta in maniera più o meno solitaria. Il secondo è il palcoscenico del benessere, della performance più o meno esibita: è il teatro della felicità. In entrambi i casi è evidente che la dicotomia pubblico/privato costituisce un’utile finzione conoscitiva. Serve solo per districare i fili intrecciati dei processi genetico-culturali. Niente ormai sfugge ai sempre più evoluti occhi artificiali della medicina. E da tempo l’ottocentesca intimità borghese ha esaurito la sua funzione sociale. Più nessun segreto di famiglia. Anzi: sempre meno famiglia e sempre più diritti: diritto all’informazione, alla salute, alla sessualità, diritti del paziente, del bambino, delle donne… Insomma, l’interdetto finisce nelle aule parlamentari, talvolta in quelle dei tribunali, sempre e comunque in televisione.

Il privato è morto. E’ morto nel momento in cui è diventato oggetto di infinite narrazioni. Il malinconico declino del femminismo così come l’eclissi delle teorie sull’alienazione indicano la vittoria del modo d’essere mercantile. Indicano anche la neutralizzazione dell’oggetto tramite la produzione di discorsi. Non sempre il sapere è liberatorio. Il discorso: “… non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio …il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi” (Foucault, 1972, pag. 10).

Per chiudere: a) il corpo malato è preso in carico dalle scienze mediche che si assumono l’onere del dolore; b) il corpo sano è preso in carico da terapeutici sottosistemi culturali che si assumono l’onere della sofferenza. La posta in gioco è, tra l’altro, l’integrità del corpo, il rapporto individuo società, il confine tra normale e patologico. Temi che ci porterebbero troppo lontano per affrontarli in questa sede. Diciamo allora che qui ci occupiamo esclusivamente della sofferenza. E di un tipo particolare di sofferenza annidata nella  psicosfera: la strenua lotta che ognuno di noi compie quotidianamente per essere socialmente accettato, riconosciuto dal proprio gruppo di riferimento, amato dall’altro da sé. Nelle economie di mercato essere felici non è gratis. La ricerca della felicità si paga in molti modi. Tuttavia è una tensione ineliminabile della condotta umana. Una tensione non meno importante di quella per la salute fisica. Anzi: inscindibile dalla salute fisica. Nella società postmoderna alcuni dei terapeutici sottosistemi culturali che osservano, interagiscono, regolano la sofferenza causata dal non essere pienamente accettati, riconosciuti e amati sono: la moda, la pubblicità, lo spettacolo, lo sport. Veri e propri transatlantici di lusso per attraversare un’epoca che sta tracciando nuove rotte tra parola e visione, che sta scoprendo nuovi mondi tra scrittura e immagine.

Problemi di cuore

L’abitudine al faticoso lavorio mentale per adattarsi alla transizione postmoderna indica che non tutto ciò che riguarda la salute si risolve nella dialettica tra corpo minacciato dalla malattia e corpo tutelato dalla medicina. Se così fosse i passaggi dalla società industriale a quella postindustriale e dalla modernità alla postmodernità sarebbero compiuti e vivremmo in un ordine socio-temporale forse meno tempestoso dell’attuale (Zerubavel, 1985). In tal caso avremmo un futuro davanti. Ma così non è. Oggi la coscienza soggettiva del tempo deve fare i conti con la fluttuazione da un mondo di concetti a un mondo di immagini fantasmatiche. Probabilmente sarebbe meglio dire di fantasmagorie dato che l’esistenza diventa sempre più un’esperienza visiva. L’immagine non si limita ad illustrare i testi ma a sostituirli. L’immagine del corpo estetico-sportivo non riflette il mondo né vi si adegua: è un mezzo per interpretare la realtà privilegiando lo sguardo.

Tutto andrebbe per il suo verso sé la modernità non avesse divorziato dal progresso. Allora non si avvertirebbe il diffuso senso di incompiutezza, la mancanza di futuro. Ma il domani è talmente gonfio di incertezze da non essere ipotizzabile se non in peggio rispetto all’immediato ieri. Una caduta di ottimismo che riduce gli spazi di progettualità. Si apre alla crisi e risolve la crisi offrendosi anima e corpo al nonstop dell’immaginazione cinetelevisiva. Nel mondo interiore degli individui la destrutturazione della parola si riorganizza intorno ai fantasmi della cultura di massa: prototipi di un Io ideale che orientano selettivamente la percezione di se stessi e degli altri. L’amore per i divi del piccolo e grande schermo, per le icone dello sport dà letteralmente corpo ad un tipo particolare di fiducia nel tempo: l’aggregazione intorno all’evento e i suoi protagonisti.

Lo sappiamo e non ce lo diciamo quasi mai: tutto questo tumulto è una questione di amore. D’altra parte, il desiderio di una vita piena di gioia è una forza di coesione sociale. L’amore dà certezze, mette al riparo dagli orrori del mondo e le ali alla fantasia. La società postindustriale l’ha capito molto bene. Le emozioni e le passioni sono la sua materia prima. Tutta l’economia gira oggi intorno alle faccende del cuore. L’automobile è la “sposa meccanica” (McLuhan, 1984), le chat line un modo per incontrare nuovi amici, l’abbigliamento una strategia di seduzione, il design la poesia della nostra epoca, il corpo sportivizzato un oggetto di salvezza sostitutivo dell’anima (Baudrillard 1976). Tramite una produzione fondata sull’amore la cultura postmoderna restituisce agli individui l’integrità d’essere persone. Il tempo trova così la sua dimora. Ma è provvisoria perché l’amore postmoderno non è emigrazione verso il tu o verso il noi. E’ innanzitutto autoreferenziale: è un amore che passa attraverso le immagini mediatiche dell’amore. Il tempo torna presto a minacciare tempesta.

Naufraghi nel tempo

La volontà di trascendere il presente è contemporaneamente aperta e chiusa dalle anticipazioni tecnologiche del domani. Il sacro riprende così ad essere un rifugio sicuro dal momento che la secolarizzazione si è sbarazzata del passato ed è ambigua sugli orizzonti futuri: non promette più l’evoluzione del progresso infinito né cede alle richieste   della decrescita. Le rivoluzioni tecnologiche non si fermano. Così gli individui devono adattarsi non solo alla moderna dannazione dell’orologio ma anche al postmoderno tempo reale. Un tempo senza durata che ha inaugurato una nuova stagione per la struttura del sentire. Il tempo è oggi una delle risorse più scarse. E la penuria di tempo entra in conflitto con la memoria individuale, con la memoria collettiva (Zerubavel 2005), facoltà necessarie per il soggetto di reinventare il passato e fondamento dell’identità di gruppo. Al momento la cultura postmoderna ha costruito un suo ordine del tempo: i presenti-futuri. Viviamo aperti a differenti attualità e nell’immanenza di molti domani offerti dalla tecnosfera. In un mondo saturo di messaggi il tempo non possiede più una funzione simbolica. La vita quotidiana su cui la borghesia aveva innestato la propria tradizione identitaria muta di statuto e si fonda sulla rottura delle continuità. Dal momento che il tempo non ha più durata la stessa idea di vita quotidiana traballa. Nell’era della simultaneità “l’identità personale è un lusso” (Lasch, 1985). Ma nel giro di una generazione al “lusso” ci si abitua. All’identità non si può rinunciare. Tantomeno un mondo di narcisi.

In un’epoca di transizione come la nostra tutto cambia. E oggi tutto cambia a velocità straordinaria. Come è possibile la vita quotidiana, ossia la ripetizione, se niente, ma proprio niente sta in piedi per una generazione? Il concetto di generazione poi è instabile: oggi molti quarantenni si vestono come adolescenti, l’infanzia sta scomparendo e le macchine digitali hanno un ciclo di vita di pochi anni. Il problema è noto e prende slancio con l’avvento della società dei consumi tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Tramite la cultura postmoderna il processo si rafforza nella pratica di una quotidianità intesa come successione di eventi sotto forma di spettacoli da offrire e consumare: lo spettacolo di sé da mostrare, lo spettacolo degli altri da guardare. Sono i cicli brevi della moda a dettare il passo del tempo. Mode tecnologiche, culturali, musicali, d’abbigliamento, mode estive… I vincoli sociali si indeboliscono frantumandosi in una miriade di fedeltà, appartenenze, identificazioni momentanee e scambiabili per nulla interessate a fornire direzioni stabili. Ritmi sempre più brevi mettono in crisi le cosmologie intermedie: “intendendo con questo termine tanto le cosmologie studiate tradizionalmente dall’etnologia (entrate in crisi con la penetrazione coloniale), quanto le rappresentazioni proprie ai corpi intermedi … cioè i partiti e i sindacati, rappresentazioni, queste ultime, che per molti hanno avuto la funzione di fornire una <visione del mondo> atta a ordinare e orientare la loro vita quotidiana, come le religioni per i credenti o i praticanti” (Augé, 1977, pag. 80). L’individuo si trova così sovraccaricato di responsabilità. È solo, in pieno deficit simbolico, privo del sostegno di mediazioni istituzionali autorevoli. Squilibri che provocano sofferenza e ricorso alla cura. Possiamo chiamare questo malessere e la sua soluzione: naufragio nel tempo.

Storia vs biografia

Le strategie di sopravvivenza al mutamento continuo suggeriscono di guardare indietro per trovare un aggancio col passato e una parvenza di continuità. Si tratta di una chance offerta dalla cultura postmoderna alla formazione dell’identità. Moda etnica e cucina tradizionale sono un esempio di viaggi nel tempo, così come il turismo in realtà deindustrializzate e il gusto dei tatuaggi. Ma girare la testa all’indietro non basta per ricostruire il senso del tempo storico. Diciamo allora che citando il passato la società postmoderna ripara una pericolosa falla dell’identità e l’individuo affronta la successione continua di innovazioni con maggiore facilità. Poi c’è appunto il giorno per giorno. E oggi le persone hanno un’altra strada da percorrere per guadagnarsi una personalità. Una strada in salita: l’ascesa verso i valori postmaterialisti quali la stima, l’autoespressione, la soddisfazione estetica (Inglehart, 1998). Tuttavia l’affermazione dei valori di benessere è tutt’altro che raggiunta. E allo stesso tempo i valori materialisti quali la crescita economica e la razionalità strumentale non sembrano aver affatto abdicato alla loro funzione socioculturale.

Come ben si vede la posta in gioco è la qualità della vita. Però la conflittualità tra tempo sociale e tempo soggettivo non sembra politicamente dichiarata. Nella transizione postmoderna valori postmaterialisti e valori materialisti convivono. Una coesistenza che indurrebbe a verificare se e quanto i valori postmaterialisti permettano la permanenza e l’evoluzione dei valori materialisti. Ma a noi qui interessa intercettare il piacere del naufrago al naufragio del tempo. Un naufragio incapsulato nell’eterno presente di un narcisismo collettivo che seppur privo di senso storico permette di sprigionare numerose potenzialità della biografia.

Nella dimensione postmoderna il tempo è convertito in spazio. Da qui l’estensione del presente, il suo essere abitato, percorso più che vissuto. D’altra parte, il tempo in sé non possiede coesistenze di senso. Il senso dei simboli è dato dalla loro natura storica. E il senso del tempo è dato dalla sua natura simbolica. Quando la dialettica tra storia e simboli non costituisce la bussola migliore orientarsi in un presente attraversato da flussi continui di informazioni e immagini muta la prospettiva del tempo. Tempo convertito in spazio, certo. Ma che tipo di spazio? Uno spazio liscio, scivoloso, impenetrabile: lo specchio, lo schermo cinematografico, la vetrina, il display del telefono cellulare, lo schermo del computer e quello della televisione. Nel nuovo ordine ottico ogni esperienza è prevalentemente vissuta come sensazione (Sauvageot, 2000).

In una società che premia la competizione tra biografie, ossia tra individui, l’eterno presente diventa una categoria sostitutiva del futuro. Come d’incanto nella cultura postmoderna non ci sono più scontri valoriali tra generazioni, ma fra tribù, coorti di età, gruppi. Talvolta si assiste al paradosso (per la modernità) di figli più tradizionalisti dei padri e di padri che imparano dai figli i trucchi della navigazione su Internet. E almeno sotto questo profilo il Novecento è davvero finito: più nessuna possibilità di rivoluzione politica, più nessun senso del tragico tanto caro alla cultura mitteleuropea, più nessun sentimento di nostalgia, fine del sentire romantico. Dove incanalare allora, le richieste di amore che si accumulano con l’innalzamento dell’età media, con la popolazione che scoppia di salute, con la stessa popolazione che soffre per l’evanescenza dei simboli socialmente condivisi, con bisogni sempre pronti a sbocciare in desideri? Come governare il sentimento del tempo di milioni di biografie in competizione tra loro per essere accettate, riconosciute e amate? Nel lavoro permanente sul corpo.

Democrazia e biografia

Le strategie di autocostrizione della società in transizione non sono senza prezzo: il giovanilismo di massa chiesto e ottenuto dal presente esteso comporta forti stress. La società non è più febbricitante come la metropoli di Simmel. Da allora ad oggi la temperatura è salita parecchio. La società di transizione è delirante. Tuttavia, anche il delirio può essere: a) economicamente un buon affare; b) socialmente un prolifico impiego del tempo; c) idealmente una produzione di visioni utili a progettare il futuro individuale e collettivo. Tre vantaggi che non annullano gli svantaggi della transizione. Uno fra tutti: il più attuale, il più invisibile: l’horror vacui.

La paura del vuoto ha molti volti. Almeno tanti quanti sono quelli di chi passa il tempo a sudare in palestra, a trascorrere i fine-settimana nelle beauty farm, giornate intere sdraiati sulla spiaggia ad abbronzarsi. La paura del vuoto corre nel rapido percorso tra lo sguardo e l’immagine oggetto del desiderio. Nell’era industriale l’horror vacui assumeva le maschere della solitudine in mezzo agli altri facendo così la fortuna della psicologia e della psichiatria. Nell’era postindustriale la solitudine in mezzo agli altri è rubricabile come una sofferenza ben tollerata. Gli altri vanno e vengono. I rapporti umani sono a scadenza. Ogni esperienza preme l’acceleratore. La modernità ha inventato il record e la sveltina. La postmodernità combatte la solitudine come il medioevo combatteva la peste. E vince: la solitudine è sempre meno oggetto di medicalizzazione, tu sei il miglior medico di te stesso, perciò non sei mai solo, sei sempre in compagnia. Di chi? Del tuo corpo. Il corpo: questo spettacolo permanente della tua biografia, questo per sé che è in te e di cui devi prenderti cura è in stretto dialogo con la pubblicità, la moda, lo sport.

E così la democrazia postmoderna ha inventato l’usa e getta, la terapia breve, l’Io multiplo. Ma se il corpo non corrisponde all’ideale sportivizzato trasmesso da campioni e attori? La soluzione c’è: occorre inseguire l’immagine ideale più di coloro che la natura ha premiato. Occorre non abbandonare il fantasma neanche per un istante. Amare l’immagine di successo è la dimostrazione di saper amare l’amore. Anche se sei fra gli ultimi fai sempre parte del presente. Ci sei, esisti. Come tutti hai diritto alla tua biografia. Come tutti puoi partecipare alla gara.

Fermare il tempo

“Ci dovrebbero essere anche gli ospedali per i dispiaceri” scriveva Zavattini nel suo primo libro (2001). Era il 1931. Ovviamente nessuno gli ha dato retta. Come si può dar retta a un letterato anarchico? Gli ospedali per i dispiaceri non sono stati costruiti e finché il dispiacere non diventa sofferenza anche per l’altro da sé non si raggiunge lo status di malati. I malati di solitudine viaggiano indietro nel tempo. Tornano alla società industriale. Gli affetti da horror vacui invece sono maggiormente emancipati, approfittano di quello che la cultura postmoderna offre loro a piene mani e affrontano l’horror vacui dichiarando guerra al malessere. Una nuova pedagogia del corpo accompagna l’individuo in lotta contro lo spettro della sofferenza: respirare in modo corretto, sciogliere le tensioni muscolari, sottoporsi a massaggi. Ma anche: fare nuove conoscenze alle terme, lasciarsi andare ai benefici della sauna, abitare una casa costruita secondo la dottrina del Feng shui. È la filosofia del wellness. Ma può essere qualsiasi altra filosofia sportiva o parasportiva. Alla fin fine non importa quale cura di sé si sceglie perché un principio della società postmoderna è: il benessere mentale passa attraverso il benessere del corpo.

Meno risolvibili sono le accelerazioni dei ritmi sociali. Oggi chi è più stressata di una quarantenne che sfiorisce? E di un ciclista dopato? Ma gli stress non sono paragonabili. Sono fatti individuali perché il corpo è sempre più privatizzato. È più stressata una top model anoressica o una rock star in crisi di astinenza? È più disperato un centravanti che non segna o un salutista che ha ripreso a fumare? Dato a ognuno lo stress di appartenenza la compressione spazio- temporale (Harvey 1993) non presenta solo lati oscuri: è la fiera delle esperienze. La velocità ricettiva dello sguardo postmoderno riduce i tempi delle ritualità a favore dell’intensità: stressati sì, ma quante emozioni. E se poi la quarantenne sconfigge le rughe, il ciclista vince senza imbrogli, la top model batte l’anoressia, la rock star si libera dalla droga, il centravanti riprende a fare goal e il salutista a smettere di fumare, chi gli può negare la vittoria sul tempo?

Le risposte della società di transizione alla sofferenza mentale sono molto complesse e variegate. Mario Perniola sostiene che oggi la comunicazione è psicotica e non semplicemente nevrotica. “Il modo d’essere psicotico costituisce … una catastrofe della significazione. Nulla di quanto viene detto nel contesto psicotico può essere oggetto di interpretazione: infatti non c’è – come nel racconto del sogno o del sintomo nevrotico – un affetto o un pensiero inconscio che si nasconde dietro il linguaggio. Nella psicosi questo diventa autonomo rispetto a colui che parla” (Perniola, 2004, pag. 35).

Vantaggi del giocare

L’autonomia del linguaggio è uno dei punti più alti del trattamento sociale della sofferenza. Ad un primo livello di osservazione constatiamo che la sua pratica non è medicalizzata. Le varie filosofie del corpo lo dimostrano quotidianamente. La società si pone il problema della salute e lo assume senza camici bianchi. Possiamo annoverare questo ripristino del benessere perduto nella biopolitica, così come fa Foucault (1978) per descrivere l’assorbimento delle diversità nella società moderna. Oppure possiamo annoverarle all’interno delle politiche per la vita come fa Bauman (2005) riferendosi alla società postmoderna. Entrambe sono interpretazioni di una normalità insofferente alla sofferenza che solo alcuni studiosi si prendono la briga di decifrare. Ma non possono pretendere di risolvere. Nel caso di Bauman poi il problema non si pone nemmeno, allineandosi così ad una prevalente tendenza culturale affermata da Toffler (1988) e che privilegia l’adattamento individuale alle trasformazioni dei ritmi sociali.

Per quanto esteso il disagio soggettivo non si traduce in disordine sociale. Tutt’altro: da anni la società di transizione ha la sua ferrea ideologia nella retorica della globalizzazione. Anche la cultura si fa globale: dalle olimpiadi al corpo levigato, bello e abbronzato esibito nelle spiagge di tutto il mondo. All’alba del terzo millennio il discorso egemone ordina: molti modelli di seduzione, guerra alla vecchiaia, la vita come gara. Se il drammaturgo Arthur Miller nota che: “…una delle cose oggi più strane in milioni di esistenze è che individui normali sono circondati, per non dire assediati, dalla recitazione come mai prima nella storia” (Miller, 2004, pag. 2), allo stesso modo si può osservare che siamo accerchiati dal continuo gareggiare in una misura superiore a qualsiasi epoca passata.

In un mondo di attori-seduttori è fin troppo facile scoprire la connessione tra l’ideologia del mercato e il continuo rivaleggiare anche nelle interazioni extralavorative. È altrettanto evidente che neoliberismo e comportamenti espressivi costituiscono due differenti aree di esercizio del potere: area dell’utilità il primo spazio, area del dispendio il secondo. Tra le somiglianze e le diversità di due sistemi allo stesso tempo integrati e separati si colloca un trascendentale storico quale la nozione di gioco. Con la new-economy si tentò persino di fare del lavoro un’attività ludica. Ma come noto la bolla scoppiò e per la maggior parte dei postmoderni resta ancora in piedi la distinzione tra tempo retribuito e tempo non retribuito. Ma il confine si fa sempre più poroso perché il denaro è lo strumento di comunicazione maggiormente diffuso. Le identità vincenti sono ricche.

Se poi sono fisicamente belle ancora meglio. L’imprenditore è un modello di identificazione. E se l’imprenditore risulta anche un campione dello sport è un’icona. I casi ormai sono tanti. Alcuni hanno superato se stessi. Il calciatore inglese David Beckham è uno degli esempi più noti. Ormai è molto più di un’icona: è un brand globale. Uomini e donne si innamorano di lui con la stessa intensità con cui ci si innamora dell’ultimo modello di jeans. Un amore vero, impulsivo, irresistibile. Un amore per il quale si nutre venerazione e si è disposti a pesanti sacrifici. Un sentimento adolescenziale, indubbiamente. Ma potente e pericoloso se insoddisfatto. Beckham è allo stesso tempo: un calciatore, un imprenditore, un sex-symbol. E’ giovane: ha 32 anni. Ha giocato nel Manchester United e nel Real Madrid.

E’ stato capitano della Nazionale inglese. Dal luglio del 2007 gioca nel Galaxy di Los Angeles. E’ sposato con Victoria, un’ex Spice Girls, band di successo negli anni ’90. Secondo indiscrezioni, grazie all’avventura americana iniziata a Luglio 2007, tra ingaggio e sponsorizzazioni Beckham guadagnerà 250 milioni di dollari in cinque anni. In più si parla di altri 250 milioni di dollari l’anno per il fatturato del business generato dalla vendita di abbigliamento, occhiali, profumi, cosmetici (Reginato 2007). Cifre da capogiro, irraggiungibili per la quasi totalità dei cittadini dei Paesi ricchi. Cifre socialmente accettate perché conservare questo sistema offre a tutti la speranza di poter un giorno raggiungere quelle vette. Beckham è figlio di operai.

Il caso Beckham dimostra che tra i giochi sociali quelli sportivi sono tra i più idonei per rispondere alle identità in crisi: plasmano il corpo, colmano di significato l’horror vacui, assegnano un ritmo al tempo, mantengono alto il livello di agonismo tra le persone, rispettano la mitologia del self-made-man, rafforzano l’ideologia liberista in economia e quella liberale in politica. Nella cultura postmoderna lo sport è salito di rango ed è diventato il maggior detentore di quote dell’immaginario collettivo.

Scaricare la tensione

L’incalcolabile produzione di testi e immagini su avvenimenti e campioni sportivi suggerisce che l’autonomia del linguaggio non è assoluta: necessita sempre di un parlante esperto. La lingua è niente senza l’atto di parola. L’icona sportiva e quella sessuale sono niente senza uno sguardo competente in grado di apprezzarle o disprezzarle. La comunicazione ha sempre ai suoi poli un emittente e un ricevente. E il ricevente reagisce intelligentemente al messaggio che lo raggiunge. Se reagisce in maniera psicotica o in maniera delirante poco importa perché entrambi le risposte possono tranquillamente coesistere. Di più: si appoggiano una all’altra dando alla società l’occasione di una terapia di massa per raggiungere il corpo idealizzato, prevenire i rischi per la salute, vincere l’angoscia di un futuro incerto. D’altra parte, un mondo di sofferenti è un mondo elettrizzato, disponibile per qualsiasi avventura. Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare una società in ansia è una società forte. La perdita, la separazione, l’insuccesso sono molle potentissime per cercare un altrove, spezzare legami, superare tradizioni: in una parola: per fare la storia. Chi lotta meglio di un infelice?

Da una prospettiva sociologica è importante comprendere chi si fa carico della sofferenza sociale. A questo punto incontriamo una vecchia conoscenza: l’industria culturale. È un concetto insuperato della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, 1966) con il quale si afferma che nelle società capitalistiche avanzate la produzione dei mass-media è razionalmente pianificata da parte di imponenti organizzazioni che hanno come fine l’adattamento degli individui ai modelli di vita e di consumo egemoni. Ai tempi di Adorno e Horkheimer l’adattamento alla cultura dominante è prevalentemente inteso come sottrazione. Sottrazione di libertà, di autonomia, di creatività nei confronti di un soggetto messo sotto tutela dalle multinazionali dell’intrattenimento e dell’informazione. Dopo le rivolte seguite in virtù di questa presa di coscienza politica della propria sofferenza, la società ha riflettuto su sé stessa e rielaborato le proprie strategie di regolazione. Oggi i postmaterialisti sono maggiormente propensi a considerare l’adattamento in termini più evolutivi: come attività, scelta, orientamento. Il controllo resta. Tanto che possiamo affermare la definitiva scomparsa del privato, altra dimensione del Novecento ormai non più funzionale alla sensibilità di un mondo in transizione.

Per quanto inquietante la società del controllo non è che una delle tante espressioni del passaggio d’epoca che ci tocca affrontare. Il controllo sociale ha attivato un altro campo di forze mutando radicalmente la propria microfisica: viviamo nell’era della sorveglianza elettronica. Gary Marx (1988) ha individuato dieci caratteristiche che differenziano la custodia digitale dalle forme tradizionali di controllo sociale. La nuova sorveglianza trascende la distanza e il tempo, è di bassa visibilità, è di frequente involontaria, è ad alta intensità di capitale più che di lavoro. Quest’ultimo elemento assume un particolare interesse perché significa che l’informazione digitale è facilmente rimandata ad una fonte centrale rendendo così possibili economie di scala: poche persone riescono a controllare molti luoghi e individui. E gli individui diventano, volenti o nolenti, fruitori (consumers) di sorveglianza partecipando in prima persona al loro stesso monitoraggio. Le tracce lasciate dalla carta di credito non sono che uno degli esempi più noti. E’ il lato oscuro della società dell’informazione. Una società nella quale: “La maggior parte delle attività di sorveglianza avviene letteralmente al buio, lontano dagli sguardi, nel regno dei segnali digitali” (Lyon, 1997, pag. 17).

La società dell’informazione: altro nome che diamo a un mondo plurale e uniformato, liberale e illiberale, salutista e sofferente. E, di paradosso in paradosso, il lato oscuro della società dell’informazione è quello più visibile, più criticato, più soggetto a norme: la tutela della privacy ad esempio. Un oggetto di cui la società si assume il peso. Ma l’ansia del narcisista per un corpo da invidiare e l’angoscia del post-materialista per la salute deve pur essere disciplinata. Si assiste così ad un contromovimento prodotto dalla società: le stesse tecnologie della videosorveglianza sono utilizzate per misurare numerose prestazioni sportive. Dal punto di vista soggettivo le unifica l’eccitazione emotiva. È eccitante superare i limiti di velocità in autostrada rischiando che l’autovelox ci colga in flagrante. È altrettanto eccitante assistere ad un evento sportivo e veder vincere la nostra squadra del cuore o il nostro beniamino superare un record.

Si noti il linguaggio affettivo adottato. Un linguaggio d’uso comune e indicatore del fatto che: “… la maggior parte degli eventi di loisir suscitano emozioni legate a quelle provate dalla gente in altre sfere: suscitano paura e compassione, o gelosia e odio, in armonia con gli altri, ma non nel modo seriamente pericoloso o sconvolgente della vita reale. Le emozioni vengono trasferite, per così dire, nella sfera mimetica con una chiave differente. Perdono mordente. Sono mescolate con una <specie di piacere>…Tuttavia, l’aspetto mimetico – caratteristica comune di tutti gli eventi di loisir… – non è costituito dal fatto che essi sono rappresentazioni della <vita reale>, ma che le emozioni (i sentimenti da esse suscitati) sono legati a quelli sperimentati in situazioni di <vita reale>, semplicemente trasposti in chiave diversa e mescolati con una <specie di piacere>” (Elias, Dunning, 1989, pagg. 99-100).

Vita satura

La vigilanza hard basata sulle tecnologie dell’informazione interagisce con una seconda e ben più visibile forma di partecipazione soggettiva al controllo sociale. Partecipazione che segna una nuova tappa nei processi di autocostrizione: l’adattamento ad un’esperienza sempre ambivalente, sempre oscillante tra la ricerca del piacere e la sofferenza per la sua mancanza, peggio ancora la sua perdita. Chi si fa carico di questa riorganizzazione della struttura del sentire è la massa culturale. Ovvero l’insieme delle professioni che gestiscono la produzione di emozioni nella nostra società: dai pubblicitari agli stilisti della moda, dai designer agli esperti di marketing. L’industria culturale allarga i propri confini oltre i mezzi di comunicazione di massa per estendersi ad ogni forma di consumo. Siamo un’epoca estetica: il bello regna sovrano. Ma soprattutto: il bello deve ancora arrivare. Di più: il bello deve sempre arrivare. È la fine dell’attesa e dei suoi tormenti. Impossibile aspettare. Impossibile rinviare l’acquisto. Con l’estetizzazione di ogni oggetto sfuma un’altra distinzione del Novecento: quella tra tempo libero e tempo di lavoro. Il piacere è comunicato ovunque. E’ a portata di sguardo.

Cercare, trovare, consumare esperienze felici è l’attività degli individui postmoderni per mantenere in vita l’esperienza del naufragio. In mezzo alla tempesta di messaggi e immagini niente è più importante della concentrazione sul proprio sé. E, a proposito di Io imperiale, bisognerebbe rileggere (nel senso di reinterpretare) e riscrivere (nel senso di rimetaforizzare) Robinson Crusoe. Nella società di transizione chi più chi meno si ritrova in qualche momento della poetica di Robinson. Nel romanzo di Daniel Defoe l’isola dona una sorpresa al naufrago: un servo di colore. Che guarda caso viene battezzato con il nome di una certezza, ossia di un giorno: Venerdì. In un mondo fatto di flussi continui di immagini e informazioni il tempo non è più un testo: è una superficie riflettente il corpo reale e quello ideale. Fanno notizia le modelle stroncate dall’anoressia e il dilagare dell’obesità. Le certezze coincidono con il gusto del successo. Nella modernità il successo di una moda ne segna l’inesorabile fine e da qui la necessità di ripetere il ciclo (Simmel 1985). Nella postmodernità la tendenza al successo è senza fine, non risponde ad un tempo ciclico perché non ha mai un punto di arrivo.

Mistici del tempo reale, i nostri occhi cercano ovunque il brivido di un’onda irresistibile. E la trovano, meglio: la studiano nell’immagine del corpo cinetelevisivo e nel suo farsi carne nella vita reale. È il quarto d’ora di celebrità per tutti, il killeraggio della noia, la sospensione del tempo, la democrazia dell’eccitazione, la seduzione in ogni dove. È la vittoria sull’horror vacui. Nessuna paura ti può più turbare: il naufragio continua. Deve continuare: seguendo i ritmi della moda, acquistando l’ultimo modello di cellulare, facendo del proprio corpo una scultura, andando allo stadio.

Convergenza emotiva

Navigando tra il probabile e l’improbabile, tra il possibile e l’impossibile come si articola l’adattamento del naufrago postmoderno stretto tra la morale della seduzione e lo stigma dell’antiseduzione? Il Robinson moderno doveva risolvere innanzitutto problemi di vita materiale: salvarsi la vita, sperare nel futuro e colonizzare l’isola. In altre parole: doveva salvare il corpo per dare respiro a un’idea. Il Robinson postmoderno deve risolvere innanzitutto problemi di vita mentale: salvarsi dai paradossi sociali, sperare nell’eterno presente e invocare discontinuità senza limiti. In altre parole: deve salvare un’idea per dare respiro al corpo. In virtù di questo spostamento dei termini corpo-idea il lieto fine appartiene di diritto a Daniel Defoe. Mentre il terrore della fine appartiene di diritto ai postmoderni.

La strategia forse più diffusa adottata dai naufraghi postmoderni a tutela della propria salute psichica si articola su tre mosse sociali: la negazione del dolore (proprio e altrui), la neutralizzazione della paura, l’intensificazione del piacere. Oggetto privilegiato di queste mosse è il corpo. La tecnologia di applicazione è la pratica dietetico-sportiva nelle sue diverse varianti, agonistiche e amatoriali. Vediamo all’opera questa tensione nei divi cinetelevisivi. L’odierno ideale di bellezza esige un ventre piatto e muscoloso, bicipiti in evidenza, performance da chi è abituato a ore e ore giornaliere di palestra. Il nuovo modello si estende anche alle donne: sul piccolo e grande schermo da tempo le notiamo esibirsi in arti marziali, atletismi di ogni tipo, abilità circensi.

Sul piano della struttura emotiva i due sessi stanno indubbiamente convergendo. Ma verso dove? Per quanto riguarda l’estetica verso un corpo- armatura, sintomo di un Io assediato da troppi stimoli visivi e allo stesso tempo in perenne confronto con l’instabilità. Per quanto riguarda la salute psichica verso un nuovo sentire, frutto di un quotidiano autocontrollo, o “lavoro emozionale” come lo chiama Hochschild (1995). E una caratteristica del lavoro emozionale è quella di impedire la trasformazione sociale. Si lavora su sé stessi per adattarsi all’imprevisto che ogni novità si porta dietro come qualsiasi corpo fisico si porta dietro la propria ombra. “Niente cambia dove tutto cambia” è una formula di permanenza che la società postmoderna ha inaugurato su scala planetaria. L’obiettivo è biopolitico: gestire la sofferenza della vita mentale trasferendola nella soluzione sempre provvisoria di un corpo socialmente accettato, riconosciuto dal gruppo di riferimento, amato dall’altro da sé. Questo non vuol dire che prima o poi la formula non si rovesci e si assista al: “Tutto cambia dove niente cambia”. Ma l’individuo postmoderno non desidera tale opzione. Preferisce non pensarci: potrebbe costargli la catastrofe di un naufragio compiuto. Potrebbe ritrovarsi solo, o forse in compagnia, ma su un’isola. Un’allegoria da reality show che il grande pubblico guarda comodamente seduto sul divano di casa. E allora: meglio una società di transizione che una nuova società.

Il corpo è un film

“Tutto ciò che nella vita reale somiglia al romanzo o al sogno è privilegiato” (Morin, 1963, pag. 35). Per quanto lontana nel tempo questa affermazione è ancora oggi euristicamente valida se si osserva la struttura postmoderna del sentire come fase di un processo storico per controllo delle emozioni (Elias, 1982). Altrettanto attuali restano i principali meccanismi psicologici individuati da Morin per spiegare la marcia trionfale della cultura di massa. Ossia: la proiezione e l’identificazione. Grosso modo possiamo dire che con la prima dinamica si intende la possibilità dello spettatore di uscire dalla propria pelle vivendo mentalmente situazioni di fantasia, con la seconda si intende l’empatia provata verso personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo. La dialettica proiezione-identificazione è ancora oggi una base fondante su cui attecchisce la gestione del corpo nella società postmoderna. Società che ha portato a maturazione la logica dei consumi di massa siglando un contratto tra controllo delle tensioni individuali e industria culturale.

La convenzione tra eccitazione emotiva e mediatizzazione dell’esistenza conferisce un senso dominante al modo di guardare sé stessi e gli altri. Lo sguardo postmoderno è prevalentemente desiderante. Come il desiderio: a) è perennemente vigile; b) punta coscientemente su un oggetto preciso; c) non è mai pienamente soddisfatto; d) ha sempre un ostacolo davanti. Fotografia, cinema e televisione sono i mezzi di comunicazione che hanno forgiato la vista della tarda modernità e della postmodernità sino a farne il senso che realizza il sogno. Il sogno ad occhi aperti di farsi notare, ammirare, desiderare. Una volta interiorizzate le immagini delle star del cinema e dei campioni dello sport gli individui postmoderni sono pronti per entrare in scena. Con le loro performance chiedono agli altri trasformati in pubblico di essere amati. La parola d’ordine è: affascinare. I più affermati tra questi narcisi rovesciano i termini della richiesta affettiva. E inducono gli spettatori ad attendere che siano loro a degnarsi di amarli. La parola d’ordine è: dominare.

La telecronaca: un romanzo postmoderno

La spettacolarizzazione dello sport agonistico costituisce uno dei fenomeni che permette cogliere l’agire dello sguardo desiderante e il suo specchiarsi in differenti situazioni sociali. E’ noto quanto il binomio pubblicità-diritti televisivi e il sistema dello sport si sorreggano a vicenda. E sono altrettanto noti i meccanismi di difesa messi in atto dallo stesso sistema sportivo per sottrarsi dall’abbraccio del business mediatico (Porro, 2001). In generale possiamo osservare nello sport un movimento simile ad altri sistemi sociali, ad esempio quello economico. Sottoposto ad una pressante mercificazione lo sport agonistico riproduce una serie di dinamiche tipiche del capitalismo finanziario: facili guadagni, scandali, usura precoce dei campioni, concorrenza sleale, conflittualità portata a livelli estremi, gare a getto continuo. Per la precisione va detto che diverse di queste dinamiche sono presenti in nuce anche nell’epoca del capitalismo industriale. Ma oggi le vediamo maturate e interagire tutte insieme contemporaneamente. In congiunture storiche di questo tipo si assiste ad una mutazione antropologica dello sport.

Anche un’osservazione impressionistica sul calcio lascia trapelare due fenomeni: i campioni di questa disciplina sono sempre più caratterizzati (uno è bello, l’altro simpatico, un terzo grintoso, un quarto inesperto ma si farà ecc.)  e le partite sempre più deludenti. Insomma, all’aumento di attrazione del singolo campione corrisponde simmetricamente un minor incanto del gioco di squadra. Cos’è accaduto? Un’ipotesi: il postfordismo applicato alla competizione sportiva comporta l’appiattimento delle prestazioni su una linea di mediocrità perché i prodotti-partita, i prodotti-squadra si differenziano sempre meno così come accade nel mercato delle automobili e dei detersivi. Agli occhi del tifoso e dello spettatore televisivo inizia a contare più il contenitore del contenuto, più la confezione del prodotto. Tutto dipende dal prezzo.

Modificando la percezione visiva dell’evento sportivo il sodalizio pubblicità- diritti televisivi corregge il gusto di un’epoca. L’armonia non è più nel bel gioco. Un esempio per capirci. Il campionato del mondo di calcio del 2006 è stato quanto di più modesto si sia potuto vedere per una competizione di quel livello. L’Italia batte ai rigori la Francia in una brutta finale per essere poi sconfitta per tre a uno da lì a un paio di mesi dalla stessa Francia. Ma quanti primi piani, quanti ricami sulla personalità di questo o quel calciatore, quante parole per sopperire alla mancanza di gioco. La testata di Zinédine Zidane al suo avversario è un monumento elettronico che ne spodesta un altro: la sofferta esultanza di Tardelli dopo un goal al Mundial del 1982.

Neopaganesimo

La profondità della superficie è un tratto classico dei nostri tempi perché è sulle superfici che si muovono le immagini. Ai fautori degli abissi di senso la cultura postmoderna risponde aprendo il proprio sistema. Quando la curva del consumo di un prodotto tende ad abbassarsi il marketing dell’industria culturale sposta il campo di applicazione delle proprie forze sostenendo processi di differenziazione. Accade allora che i campioni sportivi passino indifferentemente in un altro ordine simbolico; dalle piste e dai campi di calcio al mondo della pubblicità. Un esempio di come la liturgia sportiva porti a compimento la transustanziazione secolare del corpo in immagine.

E’ vero: la pubblicità è onnivora. Solo per fare un esempio tiene per la gola qualsiasi organo di informazione e più in generale dalle inserzioni dipende l’intera industria dei media. Dunque non si vede perché il calcio o il tennis dovrebbero sottrarsi alla sua legge dato che alla fin fine gli atleti di professione sono lavoratori dello spettacolo. Va poi segnalato l’avvento della neotelevisione. Ossia di una Tv caratterizzata dal flusso anziché dal programma, dallo zapping, dalla numerosità dei canali e da uno spettatore meno passivo seppur passato dallo status di pubblico a quello di target. L’assolutismo della pubblicità sui media e le nuove modalità di fruizione di molteplici proposte televisive hanno avuto effetti dirompenti sull’immaginario collettivo. Effetti ai quali l’atleta di notorietà globale è protagonista al pari e forse più delle celebrità hollywoodiane.

Anna Kurnikova è un ex tennista russa diventata celebre sia per le sue capacità nel doppio, di cui è stata più volte campione mondiale, sia per il suo ingresso nel pantheon del divismo. Anche lei come Beckham è un sex symbol e un prototipo del campione-imprenditore nato dal sodalizio sport-spettacolo/sport- mercato. E’ stata la testimonial di una serie di prodotti d’abbigliamento, ha avuto un fidanzamento col cantante Enrique Iglesias, è entrata nel mirino del gossip internazionale, ha lanciato una sua linea di profumi, ha fatto la modella e la ragazza-copertina. Cosa sorprende in quest’elenco? La quantità nella diversa modulazione d’uso del corpo. Il modello resta quello vincente: corpo tonico e in salute, un corpo come opera d’arte. Inizia a cambiare la sua percezione simbolica. Che tende a passare dalla mitologia dell’eroe in tutte le sue varianti (Ferrero Camoletto 2005) al corpo sacro il cui culto non può che essere neopagano in una società secolarizzata come la nostra.

A differenza dell’attore cinematografico il cui lavoro è inimitabile, o imitabile dai più in forma caricaturale, il lavoro del divo sportivo può essere fatto proprio da una gran massa di persone. Certo, in termini di performance non raggiungeranno i suoi traguardi. Ma possono arrivare a somigliarli nell’ideale corporeo. D’altra parte, l’uomo greco non godeva dei poteri degli dèi e tuttavia ne aveva le fattezze. Si possono anche rovesciare i termini e dire che gli dèi greci avevano le fattezze degli esseri umani. Pochi eletti riusciranno ad usare il corpo in così tante maniere come Beckham e Kurnikova. Ma a partire dalla loro immagine tutti possono mettersi in competizione per lenire le sofferenze postmoderne causate dalle prime rughe, i seni cascanti, l’abbassamento del tono muscolare e, orrore, la pancia prominente.

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