La democratizzazione mediale

MARINO D'AMOREI cambiamenti che la globalizzazione dell’informazione ha storicamente portato con sè hanno inevitabilmente delle implicazioni sociologiche che influenzano la quotidianità comunicativa di ognuno di noi ma soprattutto, cosa più importante, hanno mutato il ruolo dell’utenza, diventata, nel tempo, attrice attiva, che ha abbandonato passività acritica e inconsapevole che l’ha caratterizzata per anni. Internet, ossia contrazione linguistica della locuzione inglese  interconnected networks, “reti interconnesse” è, ha messo in contatto tutto il mondo, rendendo quest’ultimo una sorta di villaggio globale, anzi glocale: la Rete è il medium della cosiddetta glocalizzazione , l’unione tra globalizzazione e localizzazione e si sostanzia su un azione che segue dinamiche mondiali di interrelazione tra i popoli, tenendo conto però delle loro peculiarità culturali, delle loro istanze identitarie e di appartenenza territoriale, connotate da un background storico ben determinato. Il web nel tempo è diventato strumento quotidiano nelle mani di un’utenza sempre più alfabetizzata e fidelizzata, vero simulacro di un processo democratizzante, ma anche sociale come dimostrato dai Social Network, veri e propri catalizzatori di condivisione e relazioni irrealizzabili, almeno apparentemente, nel mondo reale. Un’evoluzione che quindi muta profondamente il ruolo di quello che fino a poco tempo fa era un semplice consumatore, dando vita ad una nuova, complessa figura spettatoriale quella del prosumer. Esso rappresenta la definitiva emancipazione dell’utente da un’anacronistica passività e la conseguente assunzione di una consapevolezza nuova e affascinante: l’identificarsi in un ruolo fortemente attivo in cui le vecchie classi mediatiche si livellano fino a formare una grande classe, una sorta di ceto mediatico omnicomprensivo che racchiude in sé categorie prima separate da uno schermo. Uno status, quello del prosumer, cui si può accedere varcando idealmente quello schermo diventato finalmente permeabile, vivendolo attraverso entrambe le sue facce: intrattenere e fruire, in un nuovo scenario che si va costituendo con progressiva continuità.

Tali innovazioni investono, come detto, anche la sfera relazionale. Internet, al pari di famiglia e scuola, opera fortemente come agente socializzatore. La Rete assurge a mezzo principe per instaurare e coltivare relazioni sociali attraverso i social network, secondo tempi e modalità del tutto nuove, mitigando il confine che divide il virtuale dal reale che diventano, sotto questo aspetto, complementari. Tutto ciò costituisce strutturalmente quel processo di democratizzazione, tante volte citato in questo testo, che si caratterizza per la neutralizzazione delle gerarchie nel sistema mediatico e per una diffusione orizzontale delle potenzialità comunicative, fino a qualche tempo fa prerogativa di oligarchie inaccessibili, ristrette e impenetrabili élite mediali, che ormai appartengono a retaggi sistemici e culturali di un passato che si allontana sempre di più. La democratizzazione si lega ad un altro concetto, quello della convergenza proprio perché entrambi non abbracciano una prospettiva strettamente tecnologica. Essi si fondano sulla multidimensionalità del processo trasformativo che coinvolge i media, valorizza il ruolo dei soggetti piuttosto che, o accanto, quello delle tecnologie e descrive in modo esaustivo i meccanismi di ibridazione e rimediazione tra vecchio e nuovo, tra il passato e il futuro. La convergenza culturale o cultura della convergenza descritta da Henry Jenkins pone al centro il ruolo degli attori che forgiano, talvolta secondo modalità inattese, la transizione mediatica.

La convergenza rappresenta, come la democratizzazione, un processo non riconducibile ad una mera trasformazione dei mezzi, ma in grado di modificare le relazioni fra essi, le industrie, i mercati, i generi e i pubblici, alterando la logica attraverso cui i conglomerati mediatici operano e i fruitori metabolizzano l’informazione e l’intrattenimento facendoli propri. Per tutte queste ragioni essa appare più come un working in progress, una trasformazione in corso, che calibra di volta in volta la sua traiettoria, che si articola in diverse dimensioni e che, per ora, non vede un definitivo punto di arrivo. Un’entità proteiforme che si declina in dimensioni caratterizzate da logiche che intrattengono forme dialettiche non decifrabili a priori, ma che connotano fortemente lo scenario mediatico.

La prima è la dimensione istituzionale: se, infatti, la produzione e l’offerta si organizzano e sviluppano strategie specifiche e mirate, figlie delle esigenze dei mercati, il lato della fruizione e del consumo adotta a sua volta proprie logiche volte a influenzare l’ambiente comunicativo convergente, logiche che derivano da bisogni più articolati e complessi, di natura non solo economica, ma anche sociale e culturale. Tale dimensione palesa inoltre una dialettica tra intermediazione e disintermediazione: da un lato si ha un ampliamento dell’offerta da parte di nuovi operatori e una conseguente disintegrazione della tradizionale catena produttiva. Spinte innovative, queste, che però a volte si legano alla nascita di nuovi conglomerati o sinergie fra gli attori mediali. Dall’altro lato emergono prepotentemente complessi processi di disintermediazione che sfociano in una progressiva sovrapposizione tra produzione e consumo come nel caso degli user generated content. Altra dimensione da considerare è quella tecnologica che evidenzia una dialettica tra convergenza e divergenza nel senso che si afferma sempre di più una confluenza di contenuti convergenti per piattaforme divergenti, aumentando così i punti di accesso ad essi da parte dei fruitori.

Sul piano della dimensione estetico-linguistica l’arricchimento e la pluralizzazione che connota il nuovo ambiente mediatico dà luogo a fenomeni di brandizzazione tesi a costruire nicchie o comunità di consumatori fidelizzati all’interno di economie di scopo: tali fenomeni riguardano sia i contenuti maggiormente attraenti sia i contenitori (le reti) che definiscono e mantengono caratteristiche identitarie forti. Infine la dimensione culturale mostra una situazione in cui si contrappongono due tipi di spinte. Le prime, top/down, sorgono dall’industria mediatica e tendono ad inquadrare in dinamiche razionali ed economiche, finalizzate quindi ad un profitto, le nuove realtà mediali diffondendo un flusso di contenuti sempre più pervasivo; le seconde, bottom/up, provengono dalle esigenze degli stessi individui animati da obiettivi e motivazioni soggettive ed  imprevedibili, individui che ormai sono alfabetizzati all’utilizzo dei mezzi di comunicazione per soddisfare quelle stesse esigenze direttamente e in maniera autonoma, sfuggendo al controllo degli apparati tradizionali di produzione .

Insomma siamo nel pieno di un cambiamento progressivo, invisibile ma al tempo stesso continuo e inevitabile. Un processo democratizzante che, oltre a destrutturare e a livellare orizzontalmente le vetero-categorie di producers e consumers, costituisce una massa critica, indistinta d’individui guidati da istanze creative e fruitive personalizzanti in ambito mediatico e agisce in ambito relazionale, influenzando direttamente la socializzazione di ogni individuo, declinandola in nuove modalità. Ciò vale soprattutto per gli adolescenti che sovrappongono il web alla vita reale o, quantomeno, lo considerano come un suo prolungamento ideale, un’estensione delle facoltà umane parafrasando Marshall McLuhan. Tutto questo spiega la diffusione e Il ruolo dei social network, proprio perché grazie alla protezione luminosa offerta dallo schermo del pc, che funge da filtro, offre a tutti, in modo democratico, la possibilità di sconfiggere barriere emozionali e intrecciare nuove relazioni. Anche in questo caso abbiamo davanti un’elisione delle differenze socio-relazionali che si esplica in un’equa distribuzione delle opportunità di scambio grazie al web ed ai social. Gli aumenti di autostima che ne conseguono sono indotti da cambiamenti che coinvolgono direttamente le funzioni neuronali del nostro cervello. Ad esempio i ricercatori dello University College di Londra ritengono che gli utenti assidui della Rete hanno una quantità superiore di materia grigia nell’amigdala, la parte dell’encefalo che gestisce le emozioni. Non sono dello stesso avviso gli scienziati della Jiao Tong University Medical School di Shangai, secondo questi ultimi nel cervello degli Internet-dipendenti (una sindrome che ha anche il suo acronimo, I.a.d.) si trova una anomala quantità di materia bianca, ossia i fasci di fibra nervosa rivestiti di mielina che garantiscono il collegamento tra il cervello stesso e il midollo spinale, nelle aree preposte all’attenzione, al controllo e alle funzioni esecutive, rallentandole come nei dipendenti da alcol e da stupefacenti. Insomma nell’epoca caratterizzata, secondo Newsweek, dalla Twitterizzazione della cultura ognuno di noi fa i conti quotidianamente con un sovraccarico d’informazioni che a volte intacca il nostro tempismo cognitivo e decisionale. Questo tipo di cambiamento, come tutti gli eventi che rappresentano una svolta, stimola una riflessione che si declina in 2 scuole di pensiero: gli apocalittici e gli integrati, citando Umberto Eco. A rassicurare i primi, schierandosi con i secondi, ci sono i risultati di una ricerca condotta da Chris Stiff della Keele University, in cui emerge come l’uso di Facebook rafforzi l’autostima e il benessere degli utenti: più amici, più messaggi e scambi relazionali comportano un sostanziale incremento della sicurezza e in generale della gratificazione personale. Di parere opposto riguardo agli effetti benigni del web è Angelika Dimoka, direttrice del Center for neuronal decision making della Temple University. La Dott.ssa Dimoka ha scoperto che quando aumenta il carico di informazioni inviate ad un ipotetico utente, aumenta anche l’attività nella corteccia prefrontale dorso-laterale, responsabile del processo decisionale di ogni individuo. Una crescita eccessiva delle informazioni ricevute, però, fa sì che questa zona vada in overload, ossia si spenga, smettendo di decidere. Internet, smartphone, giornali on line: investito da una portata simile di nozioni, quando deve scegliere il nostro cervello si blocca oppure decide tenendo conto delle notizie più recenti che però non costituiscono la totalità del problema ma solo una minima parte. Tutto questo comporta due alternative: o ci si rifiuta di prendere una decisione o la si prende in modo errato perché, tra l’altro, l’afflusso continuo di dati costringe la mente a decidere all’istante, senza riflettere troppo. A prescindere da qualunque tipo di valutazione in questo senso appare chiaro come una maggiore disponibilità d’informazione renda una società più esigente.

Tutto ciò si palesa in campo politico ad esempio dove tale bisogno si manifesta come un allontanamento dalla cosiddetta vecchia politica per abbracciare quella che utilizza le nuove tecnologie. Oggi le idee corrono sul web. Anche questa è democratizzazione. Ogni utente può conoscere realtà, dettagli, notizie che fino a poco tempo fa erano riservate solo a pochi. La tecnologia consente inoltre di catalizzare nuove forme di partecipazione che vanno dal monitoraggio continuo dell’attività politica alla possibilità di dare consigli per ottimizzare il governo della cosa pubblica. Tuttavia la Wisdom of Crowds (la saggezza delle folle) non è sempre efficace, va strutturata e regolarizzata per essere davvero utile, con opinion leader preposti ad attività di coordinamento. Tale concetto è evidente in un esperimento che condusse l’amministrazione Obama qualche tempo fa: si chiamava Open for Questions e aveva come fine portare le domande dei cittadini direttamente al presidente. Intento e finalità lodevoli se il maggior numero di richieste non avesse riguardato la legalizzazione della Marijuana e gli Ufo.

Insomma la partecipazione democratica rappresenta un progresso davvero notevole ma va canalizzata su obiettivi concreti e soprattutto utili per essere credibile. Un progresso che comunque appare decisamente inevitabile e con cui ogni classe dirigente dovrà scendere a patti. Il processo di democratizzazione che viviamo ogni giorno è inarrestabile e rappresenta una grande possibilità per tutti gli utenti: per la prima volta ognuno può avere i medesimi strumenti comunicativi nelle proprie mani con le potenzialità loro connesse e con l’indotto socio-mediatico che comportano. La democratizzazione mediale esiste ma va controllata per essere davvero efficace, impedendo però che venga gestita in futuro da élite oligarchiche come è accaduto per i mass media in passato, nella speranza che presto diventi una democrazia perfetta dove la comunicazione sia regolata, monitorata ma, principalmente, sia davvero uguale per tutti.

Prof. Marino D’Amore

sociologo della comunicazione

Portavoce Nazionale dell’Associazione Sociologi Italiani


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