GIGI BUFFON: L’UOMO, IL CAMPIONE E IL CANDIDATO IDEALE PER LA FEDERCALCIO

 

 

Latella 19 gennaio 2016 1Al ‘Santiago Bernabeu’ non ha vinto il Real Madrid, ma il valore economico di un club quattro volte più ricco della Juventus. La società bianconera è prima in Italia, ma staziona tra le prime dieci in Europa.  Basta questo per avvalorare la tesi di quanti, forse per non aver mandato giù la vittoria della compagine guidata da Zinèdine Zidane, ipotizzano una sorta di “subalternità” del direttore di gara, Michael Oliver, nei confronti dei madrileni. Accuse dettate dalla rabbia, non v’è dubbio. E non solo…, forse. Ma quello che è successo dopo l’infausta notte spagnola, che continua a dividere l’opinione pubblica, non fa certo onore al popolo calciofilo italiano (composto anche da vecchie élite di calciatori, di mestieranti e di personaggi in cerca d’autore) che storicamente si ritiene vittima delle direzioni arbitrali di fischietti appartenenti a nazioni con le quali ci contendiamo la leadership in Europa.

I processi mediatici veicolati sia dalla Tv sia dalla Rete sono la conferma della fragilità della nostra coerenza: prima esaltiamo i nostri idoli calcistici, dai quali pretendiamo la difesa dell’onore sia della Nazionale che dei singoli club, per poi crocifiggerli   quando, per amore, delusione o rabbia, si rendono protagonisti di eccesso di legittima difesa.Buffon è un uomo, non già un robot di quelli che stanno diventando i protagonisti della società post umana. Vogliamo concedergli le attenuanti? Lo merita per quello che, fino al giorno prima del’ Bernabeu’, ha fatto nel corso di una carriera sportiva esaltante e leggendaria e per il comportamento di grande signorilità e umanità dentro e fuori i rettangoli di gioco.

Anche se apparteniamo al bacino di quanti ne masticano poco di calcio, francamente, quel penalty non l’avremmo assegnato.  Soprattutto a pochi secondi dalla fine dei tempi regolamentari: con la Juve che aveva giocato meglio degli spagnoli e per giunta in vantaggio di tre reti. I restanti trenta minuti avrebbero rappresentato l’insindacabile occasione per dimostrare quale delle due squadre avrebbe meritato di accedere alle semifinali. L’errore di Michael Oliver, in buona fede fino a prova del contrario, sarebbe stato di valutazione.

Dalla partita vista in tv abbiamo avuto l’impressione che il giovane fischietto inglese avesse fretta di chiudere l’incontro. Ma questa è solo un’impressione, non già una prova o un atto di accusa.  I supplementari, sicuramente, avrebbero scritto una pagina di storia diversa da quella che le future generazioni saranno costrette a leggere e, al tempo stesso, chiarito quale il futuro ruolo della Juve in Europa. Nell’arbitraggio c’è una regola non scritta: il buon senso. Quel “cum grano salis” che, nell’occasione del rigore, Oliver ha dimostrato di non possedere.   Diversamente la pensiamo a proposito di Pierluigi Collina.   A quest’ultimo, nella qualità di disegnatore Uefa, per difendere il suo grande passato di direttore di gara, una spiegazione andrebbe chiesta per rasserenare l’animo di milioni di tifosi, juventini e non. Perché proprio Michael Oliver e non un direttore di grande esperienza internazionale? La saggezza di un anziano, dunque?

Al di là di queste considerazioni, fatte quando il matrimonio tra il danno e la beffa è ormai consumato, rimane il clima avvelenato che non aiuta la crescita della cultura sportiva.  Anche per colpa di chi, oggi, usa il microfono o la penna per alimentare la confusione, lo scontro tra tifoserie, le polemiche contro la classe arbitrale, e che, forse, all’occorrenza guida le fronde contro allenatori e vertici dei club. Immaginiamo cosa avrebbero detto o scritto gli opinion leader in caso di mancata reazione di Buffon sull’assegnazione del rigore e sul cartellino rosso che gli è stato sventolato sotto il naso alla velocità di Bolt. Non osiamo immaginarlo.

 Metà degli italiani ama la Juve, mentre l’altra metà la odia. Un sentimento mutuato dalla lotta di classe che nel secolo breve, in Italia e in Europa, ha caratterizzato la convivenza tra ideologie contrapposte. La Juve della famiglia Agnelli, nonostante i successi, in quell’epoca incarnava “il capitale”, la squadra del “padrone”, contrapposta ai club proletari, costretti ad assistere allo strapotere della Vecchia Signora.  Il calcio, il più popolare tra gli sport di massa in Italia, al pari di altri paesi europei, lo scorso secolo ha registrato la nascita di nuovi club che assieme a quelli già esistenti hanno goduto, e continuano a godere, di grandi investimenti strutturali e finanziari.  La forbice dello squilibrio si è ristretta. E la nascita di nuove rivalità, sommate ai vecchi campanilismi, ha alzato un altro ostacolo sulla via della riappacificazione calcistica (iniziando dal fronte per impegnato nella conquista della FIGC). Colpa dei linguaggi sempre più aggressivi e violenti che hanno preso il sopravvento nell’attuale società dell’apparire che non risparmia nessuno: dalla politica allo sport.

 Oggi, come sostiene l’antropologo francese Marc Augè, il “calcio funziona come un fenomeno religioso” …  e aggiunge: “Gli stadi diventano luoghi di non senso, simboli di speranza, di errore o di orrori, in cui si compiono ancora grandi rituali moderni”.Ma le religioni, aggiungiamo noi, sono amministrate dai sacerdoti, uomini e non santi: alle prese con virtù e vizi terreni che non sempre girano sui cardini della giustizia sociale, della lealtà, ma poggiano le loro basi sugli interessi economici che oggi governano il mondo e sul narcisismo (vedi Ronaldo che non perde occasione per mettere in mostra la sua “tartaruga”).

Al ‘Santiago Bernabeu’, tra rabbia, delusione e contestazione, si è registrato qualcosa di nuovo, di positivo: è partito un segnale forte sul futuro del calcio italiano. A lanciarlo, probabilmente in modo inconsapevole, è stato Gigi Buffon: un uomo, un campione che potrebbe diventare la guida affidabile della Federcalcio.  Un messaggio che i soliti gruppi di potere che ruotano attorno a questo sport di massa stanno tentando di disturbare, attraverso l’uso di filtri che disorientano l’opinione pubblica distogliendola dal vero problema. Cioè dalla poco credibilità del satellite calcio italiano, monopolio di pochi ricchi i cui grossi guadagni alimentano le illusioni di migliaia di giovani, che dopo qualche anno vissuto sotto le luci della ribalta sono costretti ad inventarsi un futuro.

Antonio Latella – giornalista e sociologo

 


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